Presso la stupenda corte agricola medievale di Giarola (Collecchio), posta sulla sponda destra del fiume Taro, in asse con quella Via Francigena che conduceva i pellegrini verso la Città eterna, a fianco del già esistente Museo del Pomodoro, viene allestito il Museo della Pasta, nel contesto del più ampio circuito dei Musei del Cibo della provincia di Parma (Museo del Parmigiano Reggiano a Soragna, del Vino a Sala Baganza, del Salame a Felino, del Prosciutto e dei salumi a Langhirano) a completare un percorso di approfondimento dei più importanti prodotti alimentari del territorio.
La pasta secca di semola di grano duro, di origine mediorientale, ha trovato in Italia la patria d’elezione, sviluppandosi nei secoli in diverse aree del Paese: in Sicilia, in Liguria, a Napoli, a Bologna. Nell’Ottocento inizia a Parma l’attività di Barilla, oggi leader mondiale del settore, che ha contribuito in maniera determinante alla nascita del museo dedicato in sei sezioni, alla conoscenza storica, tecnologica e culturale della pasta.
Breve storia della Corte di Giarola, un antico centro di trasformazione agro-alimentare
Giarola sorge sulla riva destra del Taro all’incirca a metà strada tra Fornovo e Pontetaro. Il significato e l’origine del toponimo sono di facile decifrabilità: Glarola, cioè la ghiaietta del Taro, in epoca romana o altomedievale. A capo di uno dei tanti guadi del fiume, Giarola venne a trovarsi sulla strada pedemontana che, provenendo dalla Val Baganza e da Talignano, conduceva a Medesano, Noceto e Borgo San Donnino. La località, interamente pianeggiante, stretta tra Oppiano a Sud, la strada Maestra a Est, il torrente Scodogna a Nord e il fiume Taro a Ovest, in età storica, cioè dalla metà dell’Undicesimo secolo, epoca alla quale risalgono le prime notizie, divenne proprietà del monastero femminile di San Paolo e sede di un piccolo nucleo monastico intorno al quale vennero a formarsi una chiesa, stalle e vaccherie, abitazioni, un mulino e un caseificio: una corte rurale, insomma, autosufficiente e protetta da robuste mura, tanto che in alcuni documenti viene anche chiamata castro, castello. Il mulino era mosso dalle acque del canale Naviglio Taro, che aveva – come tuttora – il suo incile poco a monte, dapprima a Ozzano e poi un po’ più a valle, verso la chiesa di Oppiano, dove pure esisteva una corte monastica, questa volta dei Benedettini di San Giovanni Evangelista, con un mulino e, forse, anche uno xenodochio, cioè un piccolo ospizio per i pellegrini che transitavano lungo il fiume in direzione di Fornovo per affrontare il tratto appenninico della Via Francigena, o Strada Romea. Il canale Naviglio Taro scorreva quindi attraverso Collecchiello e Vicofertile e portava l’acqua a Parma a Porta San Francesco, oggi Bixio, e giungeva fino alla peschiera del Parco Ducale. Muoveva parecchi mulini e opifici in campagna e in città, fino alla fabbrica ducale dei vetri e delle maioliche, passata ai Bormioli alla metà dell’Ottocento.
Tutta questa zona rivierasca, un tempo sicuramente paludosa e fitta di boschi, al volgere del primo millennio era dunque già ben bonificata e resa produttiva. Le coltivazioni erano a grani, foraggi, viti e riso. Le risaie, presenti già nel Cinquecento, vennero soppresse per disposizione ducale, ma ripristinate, perché assai redditizie, nell’Ottocento; definitivamente ritenute dannose per la salute pubblica, vennero soppresse nel 1874.
Il castello aveva la sua sia pur limitata importanza strategica se all’inizio del sec. XIV fu aspramente conteso durante la lotta tra le fazioni che si riunivano intorno alle più importanti famiglie parmigiane; nel 1451 ospitò il duca Francesco Sforza proveniente dal Piacentino e in viaggio nel Parmense, e vi si accampò parte dell’esercito dei Collegati comandato da Francesco II Gonzaga, che datò alcune sue lettere proprio da Giarola, alla vigilia della Battaglia del Taro del 6 luglio 1495. Giarola si inseriva nel sistema di incastellamento del territorio. Per accennare soltanto agli immediati dintorni, altri castelli o corti fortificate erano a Madregolo, Collecchio, Segalara, Carona e, oltre il Taro, a Noceto, quasi tutti nelle mani della famiglia Rossi[1]. La chiesa, invece, originariamente una semplice cappella, benché inserita nel percorso della Via Francigena, non aveva il titolo di distinzione di Pieve e già nel 1230 dipendeva da quella vicina di Collecchio. Certamente però aveva una forma plebana, con fronte a capanna, abside semicircolare e archetti in cotto, alcuni dei quali sono sopravvissuti ai consistenti restauri intervenuti nel tempo, in particolare nel sec. XVIII, e ai bombardamenti della Seconda guerra mondiale. All’interno si conservano, tra l’altro, un’Annunciazione di un buon imitatore del Malosso, forse Francesco Lucchi (come suggerito da Giuseppe Cirillo e Giovanni Godi) dei primi del Seicento entro una cornice settecentesca, una Sacra Famiglia coi Santi Gioacchino e Anna, di discreta qualità, della seconda metà del Settecento e un paliotto in cuoio lavorato e dipinto, della stessa epoca[2].
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[1] Lino Lionello Ghirardini, La Battaglia di Fornovo: un dilemma della Storia, 2ª ed., Edizioni Storiche d’Italia, Parma, Tip. Bassoli, 1981, pp. 27, 164.
[2] Italo Dall’Aglio, La Diocesi di Parma, vol. I, Parma, Scuola Tipografica Benedettina, 1966, pp. 532-534.