Questo servizio è stato realizzato grazie al sostegno di Fondazione Cariparma
Il Museo della Pasta fa parte del circuito dei Musei del Cibo della provincia di Parma e propone un viaggio alla scoperta della storia e delle curiosità legate alla pasta italiana.
Grano o frumento è il nome comune di diverse piante erbacee appartenenti ad un unico genere a cui il naturalista svedese Linneo ha dato il nome latino Triticum, che ricorda per assonanza l’azione di tritare i semi per ottenere farina. Il genere Triticum appartiene alla famiglia delle graminacee, della quale fanno parte molte altre piante coltivate a scopi alimentari, come l’avena, il mais, il riso, l’orzo, la segale, detti comunemente cereali in onore di Cerere, dea latina delle coltivazioni, raffigurata nell’arazzo di manifattura fiamminga del XVIII secolo riprodotto nel grande pannello centrale. Qui è raffigurata una scena di mietitura e, in primo piano, l’eroe greco Trittolemo, che aveva appreso direttamente da Cerere – la Demetra [dea madre] dei Greci – i segreti dell’agricoltura, mentre offre alla statua della dea il primo covone di grano raccolto, e la dea stessa si mostra compiaciuta. Tutti i riti primordiali dell’umanità sono legati alla fertilità e alle fasi della natura. I cereali hanno assunto nei secoli grande importanza alimentare perché ricchi di amido e di sostanze proteiche.
Il grano è una pianta annuale con un apparato radicale molto sviluppato: una pianta alta non più di 60-70 centimetri ha uno sviluppo radicale fino a 600 metri. Questo le consente di catturare l’umidità del terreno e di sopravvivere anche in climi particolarmente asciutti.
I fiori formano un’infiorescenza a spiga composta. Il suo ciclo di vita dura intorno ai 200 giorni: dopo la germinazione in inverno, in primavera si innalzano rapidamente gli steli (culmi), si forma la spiga tra le foglie apicali, che cresce fino alla fioritura, durante la quale gli ovari dei singoli fiori si ingrossano e induriscono. A questo punto diminuisce progressivamente l’attività delle foglie e delle radici e le sostanze nutritive si concentrano nelle cariossidi (i semi) che maturano poco prima della morte della pianta. Una spiga di frumento contiene mediamente da 20 a 60 frutti secchi, chiamati cariossidi. Nel corso della sua storia l’uomo ha identificato due varietà molto importanti per la propria alimentazione: il grano tenero, impiegato per la produzione del pane e il grano duro, più ricco di glutine, tradizionalmente utilizzato per la pasta.
I primi agricoltori concentrarono l’attenzione su un numero ristretto di varietà: le selezionavano nell’ambiente naturale per poi piantarle e curarle. In Medio Oriente scelsero le prime varietà di frumento, farro e orzo; in Cina il riso selvatico coltivato a secco; in Africa il sorgo, in Papua e Nuova Guinea un tubero amidaceo, il taro; in America il mais.
La cosa sorprendente è che queste piante, allo stato naturale sono spesso immangiabili, o perlomeno disgustose. Perché allora gli uomini avrebbero deciso di coltivare del cibo che è possibile consumare solo dopo che è stato messo a bagno nell’acqua, bollito o macinato? Diffondendosi per tutto il globo, la specie umana dovette competere con gli altri animali per procurarsi il cibo. Quando non era disponibile il cibo facile e immediato, era indispensabile, per sopravvivere, procurarsi del cibo “difficile”.
L’uomo cominciò quindi a raccogliere i piccoli semi duri che chiamiamo cereali, e che, se mangiati crudi, sono indigesti, e imparò a spappolarli, a impastarli con altri ingredienti o a trasformarli in pane attraverso il doppio processo della lievitazione e della cottura. Nessun altro animale avrebbe potuto concepire tutti questi passi in sequenza. Così l’uomo, grazie al suo cervello, guadagnò un vantaggio competitivo su tutte le altre specie. Ancor oggi i cereali garantiscono la sopravvivenza del genere umano.
Il grano è il frutto della terra per eccellenza. La mitologia lo ricorda come dono di Demetra-Cerere agli uomini dopo il ritrovamento della figlia Proserpina. Grazie al mito, il grano diviene simbolo del fluire del tempo, della rinascita e del ritorno dell’estate, ma anche dell’abbondanza e compare nelle monete antiche, nelle raffigurazioni dei mesi fra i lavori dell’uomo, nella simbologia cristiana con evidenti rimandi al sacrificio di Cristo – se il chicco di grano non muore… Io sono il pane vivo – e la figura del mietitore riporta alla memoria quella della morte e della ciclicità della natura. Nel Novecento spighe di grano e fiordalisi sono scelti come elementi decorativi ricorrenti dello stile Liberty.
Nella vetrina sono esposti un piatto in ceramica di Montelupo del XVII secolo con la figura del mietitore, un fregio liturgico in argento battuto del XVIII secolo, un piatto in papier-maché con spighe in madreperla del XIX secolo e una formella in cotto degli anni Dieci del Novecento.
La spiga, simbolo di abbondanza, compare nel logo della FAO, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura, nelle monete e nei francobolli.
Ma nella nuova savana, più rigogliosa, le gazzelle – numerosissime – tendevano a restare tutto l’anno nello stesso posto, dove anche gli uomini finivano per insediarsi.
Da lì alla raccolta e poi alla semina dei cereali, il passo fu tanto breve quanto importante. Di solito i semi delle erbe selvatiche cadono dalla pianta e finiscono mangiati dagli uccelli o sparsi dal vento, ma qui, per la prima volta, qualcuno decise di selezionarli già sul gambo: una decisione fondamentale se si vuole coltivare una pianta.
I semi venivano quindi divisi, sgranati, mondati e macinati, diventando farina. In un momento successivo quelli accantonati venivano seminati.
È l’inizio dell’agricoltura.
Un po’ alla volta i primi agricoltori diedero vita a due delle principali colture del mondo: orzo e frumento. Gli scavi archeologici a Jarmo, ai piedi dei monti Zagros, nell’Iraq settentrionale, hanno portato alla luce falci di pietra e altri attrezzi agricoli e individuato un granaio neolitico con semi di Triticum dicoccum, grano selvatico coltivato, risalente al 7.000 avanti Cristo.
Poiché coltivando cereali il terreno si impoveriva rapidamente, le comunità agricole si spostavano via via verso terreni vergini. Così l’arte della coltivazione del grano passò in Egitto, si diffuse poi alla Grecia e all’Italia, dove era presente già nel secondo millennio avanti Cristo e attestata in area parmense presso la civiltà delle Terramare.
Nella pedana sono esposti alcuni attrezzi agricoli in uso ancora nel secolo scorso: aratri in legno e metallo, cesto per la semina manuale, tribolo per la sarchiatura con animali, falce messoria per la mietitura, bastoni snodati, detti correggiati, usati per battere le spighe e fare uscire i chicchi dalle spighe, affiancati da immagini che ne mostrano l’impiego. Sono esposti anche un raro rullo e una pietra da traino usati per la trebbiatura con animali. Il grano veniva poi setacciato, misurato – “Mine” da grano sulle mensole della parete – conservato nei cassoni, scavati nei tronchi di legno, pesato – braccio e stadera metallica del XVIII secolo – e quindi raccolto in sacchi per essere avviato alla macinazione.
Il filmato mostra la macinazione tradizionale in un antico mulino a pietra e la tecnologia moderna in un moderno impianto industriale.
I modelli esposti raffigurano, semplificandoli, i principi di funzionamento delle varie tipologie di mulino. Partendo dal modello “a clessidra” di epoca romana, mosso da forza umana o animale e posto nelle vicinanze dei forni, si passa al mulino ad acqua “a ritrecine”, ovvero a ruota orizzontale, più antico e robusto, ma funzionante solo con grandi quantità d’acqua; arrivando al mulino “vitruviano” o a ruota verticale, in grado di funzionare anche con quantitativi minimi d’acqua e differenti dislivelli. Da questa tipologia discendono anche i mulini fluviali, costruiti su barconi ancorati a riva, le cui macine erano mosse dal fluire della corrente e i mulini a vento, diffusi sulle coste italiane dove le brezze costanti costituivano una forza motrice essenziale.
Di fronte ai modellini si erge un mulino a palmenti originale del XIX secolo proveniente dal “Mulino Gambarato” posto nella valle del torrente Rovacchia nel territorio parmense, ed è stato recuperato nel 1985 e restaurato nel 2014 dai tecnici del Gruppo “Medaglie d’Oro” Barilla.
Sopra alle macine è posta la tramoggia, una cassetta in legno a tronco di piramide rovesciata, dove viene versato il grano, che, cadendo nel foro centrale della macina superiore, è costretto a passare nello spazio fra le due mole, in cui viene macinato per pressione e per sfregamento, per scaricarsi all’esterno e confluire, grazie al moto rotatorio, in un cassone posto sotto il telaio che racchiude le macine. Regolando la distanza delle mole, si ottiene un diverso grado di finezza del macinato.
Per ottenere una macinazione più omogenea, si fa compiere al grano un percorso più lungo munendo le superfici affacciate delle mole di scanalature a raggiera opportunamente profilate – dopo che la macina corrente è stata sollevata con la gru a braccio mobile visibile sulla sinistra – con le martelline esposte nella piccola vetrinetta laterale.
Il pannello mostra anche immagini delle cave parmensi dove si estraeva la pietra per le macine da mulino.
In passato, con il mulino a pietra, la crusca veniva frammentata insieme alla cariosside del grano, dando uno sfarinato dal quale si poteva separare solo in parte la crusca di maggiori dimensioni.
Alle soglie del XX secolo, i mulini idraulici furono trasformati gradualmente a trazione elettrica (introdotta a Parma nel 1890) o altrimenti chiusi. Il mulino a cilindri, detto anche laminatoio, è costituito essenzialmente da due o più cilindri di ghisa, lisci o scanalati, paralleli e rotanti in senso tra loro opposto, che in base alla loro regolata distanza, asportano la parte esterna dei chicchi, frantumandoli progressivamente, in successivi passaggi, fino a raggiungere la grana voluta. L’introduzione dei cilindri metallici rivoluzionò l’industria della macinazione permettendo di separare la crusca e di sgretolare il grano in semole sempre più fini, riducendo il riscaldamento della farina e lavorando in forma igienicamente sicura tutto il prodotto.
Da questo momento l’attività dei mulini assunse le caratteristiche di un’impresa industriale, abbandonando, con il non più necessario contatto con l’acqua, anche il ruolo di punto di incontro per il mondo agricolo ed il mugnaio si trasformerà in esperto tecnologo al servizio dell’alimentazione.
Sulla pedana è esposta un antico modello di laminatoio a cilindri costruito a Uzwill in Svizzera dall’officina di Adolphe Bühler nel 1890.
E proprio dall’attrezzo per i vermicelli nasce la trafila e la tecnologia della pressa, che permette oggi la produzione di centinaia di forme differenti.
La lunga vetrina espone una serie di attrezzi usati per la produzione casalinga della pasta: matterelli, stampi da paste ripiene, rotelle tagliapasta, uno dei primi modelli di macchina per tirare la sfoglia, con i rulli ancora in legno, alcuni piccoli torchietti a manovella – simili ai tritacarne – usati per produrre in casa spaghetti o rigatoni. Al termine della mensola, dopo una macchina per maltagliati del XIX secolo, è visibile un torchio settecentesco con trafile in rame per la preparazione della pasta, proveniente da una cucina signorile di area padana. Il video mostra le differenti tipologie di pasta – casalinga, artigianale, industriale – e le differenti tecniche produttive.
La notevole serie esposta nella vetrina presenta un centinaio di esemplari databili – da sinistra a destra – dal XVI al XX secolo.
La vetrina espone una serie di sacchi da pasta di aziende parmensi della prima metà del Novecento.
Lo straordinario rinvenimento ha offerto lo spunto per analizzare, con l’autorizzazione del Ministero, alcuni frammenti degli spaghetti dei due campioni, grazie alla collaborazione del Dipartimento di Fisica dell’Università di Parma e dei laboratori di ricerca Barilla di Foggia.
Le analisi di laboratorio hanno consentito ai tecnici di confermare le impressioni del Direttore del Carcere che avevano portato alla contestazione della fornitura: gli spaghetti del 1838, contrariamente al campione dell’anno precedente, contenevano farina di grano tenero, non tenevano la cottura e non corrispondevano, quindi, ai requisiti del contratto.
Quello dell’Archivio di Stato di Parma risulta essere il più antico campione di spaghetti di produzione industriale a tutt’oggi noto e conservato, che viene esposto grazie all’autorizzazione del Ministero dei Beni e Attività Culturali.
L’eccezionale impianto esposto, unico al mondo nella sua integrità e completezza, proviene dal Pastificio Celle di Chiavari, già di proprietà della famiglia Sivori, ed è databile, nella sua configurazione originaria, intorno alla metà dell’Ottocento. L’intero impianto era azionato da un sistema aereo di alberi e di pulegge che trasmettevano la forza motrice ai singoli macchinari con cinghie in cuoio o tessute, secondo il sistema comunemente in uso tra il XIX e il XX secolo. Cessata l’attività negli anni Ottanta e smontato nel 1993, il pastificio è stato integralmente restaurato dai tecnici del Gruppo “Medaglie d’Oro” Barilla e rimontato filologicamente per l’esposizione museale.
L’impasto
La semola, ricavata dalla macinazione del grano duro, veniva impastata con acqua in un recipiente di grandi dimensioni, inizialmente a mano o con l’uso dei piedi; in seguito con l’uso di una macchina – l’impastatrice, appunto – dotata di braccia meccaniche o, come nel nostro caso, di una molazza di pietra, visibile al centro. Terminata l’operazione era necessario trasferire a mano l’impasto nella seconda macchina del processo: la gramola.
La gramolatura o raffinazione
Poiché la semola è, per sua natura, vetrosa e fatica a impregnarsi d’acqua, si rende necessario un secondo trattamento – che potremmo quasi definire di “massaggio” – che permetta all’acqua di penetrare uniformemente nell’impasto, rendendolo più liscio e omogeneo. All’inizio vennero adottate gramole a stanga azionate a mano anche da più uomini, quindi molazze di pietra mosse dalla forza idraulica e, infine, gramole “a coltelli” in legno oppure, le più diffuse ed efficaci, a rulli conici in metallo, come quella visibile sulla sinistra. Terminata la raffinazione, l’impasto era trasferito manualmente alla lavorazione successiva. In alcuni casi, soprattutto per la pasta all’uovo, si “tirava” la sfoglia fra due rulli lisci calibrandone lo spessore (macchina in fondo a sinistra).
La formatura della pasta
Intorno al XV secolo iniziò a diffondersi la tecnica di formatura per estrusione, grazie all’impiego del torchio a vite. Il torchio, inizialmente realizzato in legno con la sola “campana” in bronzo, nell’Ottocento verrà prodotto in ghisa, aumentandone sensibilmente le dimensioni e la resa produttiva. Al termine della bocca del torchio veniva incastrata la trafila che, grazie ai suoi fori di differenti forme e dimensioni, permetteva la fuoruscita dei differenti formati, tagliati poi manualmente dal pastaio o da un coltello meccanico rotante posto all’esterno della trafila stessa. Furono costruite presse orizzontali, impiegate principalmente per le pastine corte da minestra (in fondo a destra), e verticali (in fondo al centro), per i formati lunghi.
L’essiccazione
A questo punto della lavorazione era necessario disporre la pasta appena uscita dalle trafile su ampi telai a rete se corta, o stesa su canne se lunga, (sul muro a destra) per consentirne l’essiccazione corretta e adeguata, indispensabile per la successiva conservazione del prodotto. La fase di essiccazione era particolarmente delicata, in quanto i parametri potevano variare a seconda della stagione, del clima, della presenza del vento e addirittura da pastificio a pastificio. Questa fase era seguita con particolare solerzia dall’esperto Capo pastaio. Al termine la pasta era preparata per la spedizione, inserita in ceste di scorza di castagno (corbelli) foderate di carta o in casse di legno o in sacchi di cotone.
La pressione esercitata dal torchio sull’impasto, costringeva la pasta ad attraversare i fori della trafila e a prendere la sua forma definitiva.
La produzione delle trafile divenne attività specifica di officine meccaniche di precisione, che contribuirono alla nascita e alla proliferazione di nuove forme di pasta: oggi in Italia se ne contano oltre 300!
Le trafile erano costruite in rame, bronzo rosso, bronzo al manganese (e oggi in acciaio e teflon), tutti materiali inattaccabili dagli acidi che si sviluppano con la fermentazione della pasta.
Qui sono esposte le trafile ottocentesche in rame e bronzo in dotazione ai torchi del Pastificio Celle di Chiavari: le più piccole, per il torchio orizzontale, si usavano per la produzione delle pastine.
Se invece prendiamo in considerazione la forma, possiamo suddividerla in lunga e corta di cui una sottocategoria è data dalle pastine, tutte tipologie sia piene che bucate. Un settore a parte è rappresentato dalle paste ripiene.
Il leggio presenta una selezione con i cento formati più diffusi in Italia, corredati dalla immagine fotografica, dal disegno tecnico e dalla trafila con la quale vengono prodotti.
Qui viene presentato un prototipo della terza serie, databile alla fine degli anni Trenta del Novecento, proveniente proprio dal Pastificio Braibanti di Parma e restaurato nel 2014 dai tecnici del Gruppo “Medaglie d’Oro” Barilla per l’esposizione museale.
Il filmato mostra, anche attraverso animazioni, la tecnica di produzione della pasta nello stabilimento Barilla di Pedrignano, presso Parma, il più grande pastificio del mondo.
La fame atavica dei napoletani si materializza anche in un personaggio della Commedia dell’Arte: Pulcinella – nella teca una statuetta di ceramica – perennemente affamato di spaghetti.
Nella prima metà del Novecento i grafici, più che presentare le caratteristiche del prodotto, si dedicano alla creazione di personaggi emblematici, straordinari e “simbolici”, chiamati a sviluppare un’idea, che deve attrarre, stupire, divertire, secondo lo stile di volta in volta in voga, dall’eclettismo ottocentesco, al Liberty, al Déco. La figura più rappresentata è il cuoco, prescelto quale testimonial da diversi pastifici, seguito a ruota dai bambini.
I pannelli e il monitor presentano una panoramica della comunicazione pubblicitaria dei pastifici italiani ed europei dagli inizia del Novecento ai nostri giorni. La statuetta raffigura Semèle che inonda il mondo di pasta ed è tratta da un calendario pubblicitario Barilla.
L’espositore propone una serie di scolapasta, dal XVIII al XX secolo.
Il pannello presenta gli abbinamenti “ottimali” tra forme e condimenti. Il touch screen permette di selezionare centinaia di ricette testate da Academia Barilla per tipologia di formato, per condimento base e per regione di provenienza e, volendolo, di spedire alla propria mail quelle più interessanti.
Così che il “piatto nazionale” italiano, ammiccando continuamente dalle pagine dei giornali e nella vita culturale del Paese, è ormai parte inscindibile della nostra identità e del nostro stile.
La sezione propone foto, illustrazioni, fumetti che illustrano la pasta raffrontando fra loro immagini dagli stili ed epoche differenti. Il monitor mostra pubblicità di prodotti non alimentari che si ispirano alla pasta.
Il circuito dei Musei del Cibo propone altre visite interessanti: innanzi tutto il Museo del Pomodoro, ospitato nello stesso edificio, al piano terreno. A 15 minuti d’auto, attraversato il Parco regionale dei Boschi di Carrega, si trova la Rocca di Sala Baganza, che accoglie il suggestivo Museo del Vino. A 10 minuti d’auto da Sala Baganza si trova il Museo del Salame Felino, ospitato nelle affascinanti cantine del Castello.
Grazie per essere stati con noi e buona permanenza nella terra di Parma.