Alcune opere cinematografiche riescono a intrappolare l’essenza stessa di un particolare momento storico. Certi film sono in grado di cogliere i vezzi, le abitudini e le criticità di un’epoca e, di solito, sono proprio quel tipo di pellicole a sopravvivere al tempo, incastonate per sempre nell’immaginario collettivo. “Miseria e nobiltà” (1954) di Mario Mattòli è in questo senso la descrizione di uno spaccato di realtà, in cui il regista racconta l’Italia di fine Ottocento, ancora segnata da profonde divisioni sociali ed economiche.
La miseria
Totò, al secolo Antonio De Curtis (1898-1967) interpreta Felice Sciosciammocca, uno scrivano impiegato al Teatro San Carlo di Napoli, sempre in cerca di nuovi espedienti per cercare di sbarcare il lunario e fuggire dall’assillo dei debiti. Felice, personaggio vestito della consueta e amara ironia che accomuna tanti personaggi “à là” Totò, vive con moglie e figlio in una piccola casa di corte, che condivide con lo squattrinato amico Pasquale (Enzo Turco). Le due famiglie incarnano perfettamente il concetto di “miseria”, che Mattòli, rappresenta con l’immagine di una tavola vuota, affollata da commensali che, con la dignità di chi ha poco, ridono delle proprie sfortune e si ingegnano per porvi rimedio.
La nobiltà
Ed ecco che giunge la soluzione ad ogni problema: il marchese Eugenio Favetti, vecchio amico di Pasquale, offre alle due famiglie una via d’uscita. In cambio di un lauto compenso, Pasquale e Felice, e con loro mogli e figli, dovranno fingere di essere gli aristocratici parenti di Favetti. Il marchese vuole sposare Gemma, una ricca ballerina borghese. Al matrimonio si oppone il padre, Ottavio, per via delle origini popolari della giovane. I due pover’uomini dovranno interpretare il ruolo di padre e zio del marchese, così che entrambe le famiglie, quella aristocratica e quella borghese, non si incontrino mai davvero e il matrimonio si possa tenere. Questo piano è ovviamente destinato a fallire, ma i suoi sviluppi saranno quantomai coinvolgenti.
La miseria indossa dunque i panni della nobiltà, con risvolti a tratti esilaranti, ma mai privi di quella sottile critica all’ipocrisia classista di quel tempo. L’apice della comicità verrà raggiunto dalla scena del pranzo, vera pietra miliare della cinematografia italiana.
Luigino, fratello di Gemma, si innamora della figlia di Felice durante una delle tante visite, e decide così di estinguere i debiti di tutta la famiglia dell’amata. Inoltre spedisce un lauto pranzo nella piccola abitazione…
La pasta
Sulla tavola, posta al centro del salotto, viene poggiato ogni tipo di ben di Dio. Pane, pesce fresco e altre leccornie vengono osservate con desiderio dai commensali. Totò (Felice) è chiaramente il protagonista della scena, complice la mimica facciale che ha contribuito al suo straordinario successo. Le famiglie devono mantenere una compostezza “nobiliare”, per salvare le impressioni nonostante siano terribilmente affamati. Il cibo, si sa, si mangia anche con gli occhi. Tuttavia, quando viene scoperta una teglia di spaghetti al pomodoro fumanti, ogni contegno viene abbandonato. Totò si getta sulla tavola, afferrando gli spaghetti con le mani, mettendoseli addirittura in tasca, in una scena senz’altro spassosa ma, a suo modo, avvolta da un alone di malinconia.
Non è un caso che Mattòli usi la pasta come “goccia che fa traboccare il vaso”, l’elemento di fronte al quale i presenti non riescono a resistere. Tra tante prelibatezze, le due famiglie scelgono di saziarsi proprio con gli spaghetti: pasto ideale di ogni italiano. La pasta è al contempo nobile e popolare ed è, forse proprio per questo motivo, parte integrante della nostra cultura.
Per approfondire: > La pasta nel cinema italiano, di Gianni Rondolino