Il “Baldus” di Teofilo Folengo: la pasta è protagonista del “Paese della Cuccagna”
Chi può dire di non aver mai immaginato di vivere in un “sogno culinario”, un paese fantastico in cui le montagne sono fatte di Parmigiano, e le imbarcazioni si muovono silenziose su fiumi di guazzetto, assicurate da funi di salsiccia? Certo, può sembrare un po’ stravagante, ma qualunque amante del buon cibo può, con la giusta dose di fantasia, calarsi in questo delizioso e suggestivo scenario. Era forse questa l’intenzione di Teofilo Folengo (1491-1544), uno dei massimi esponenti di quella “poesia maccheronica” che rappresentò una innovativa, per quanto parziale, emancipazione del linguaggio poetico dalla lingua latina, da sempre il registro prediletto dai dotti dello Stivale. Nel suo “Baldus” Folengo, che in gioventù aveva più che altro tentato di imitare lo stile della grande poetica classica (Virgilio era senz’altro il suo principale riferimento), trovò una sua più definita identità letteraria nel narrare le vicende del prode Baldo, l’eroe epico che attraversa un “Paese della Cuccagna”, costellato da prelibatezze e paesaggi straordinari. I riferimenti culinari del Folengo sono assai numerosi, quasi troppi da menzionare, ma di certo la pasta viene più volte citata ed è un elemento centrale del folle panorama sognato in un’epoca in cui la fame e la carestia, più che l’abbondanza, erano la norma.
“Qui ci sono coste fatte di fresco e tenero burro, in cui cento caldaie fumano sino alle nuvole, piene di tortelli, di maccheroni e di tagliatelle”.
Nel proemio, che fa eco ai poemi cavallereschi, così popolari in quell’epoca, Folengo invoca le Muse, abitanti di questo luogo immaginario, quasi chiedendo di essere imboccato, sopraffatto dal benessere che solo il cibo, e questo sarà chiaro nelle parole di Baldo, è in grado di dare all’uomo. Le Muse sono tutte indaffarate nelle più svariate mansioni culinarie, dalla pesca dei tortelli al cucinare distese di lasagne, soffiando su grandi fuochi ardenti, tra la nebbia fitta dei vapori dei camini sempre accesi.
“Le stesse Ninfe abitano sulle cime dell’alto monte, e grattano il formaggio con le grattugie forate. Altre sollecitano a produrre i teneri gnocchi, che rotolano giù a frotte tra il formaggio grattugiato, e si rivoltano dalla vetta del monte diventando grossi come botti panciute”.
Mondi fantastici come quello di Folengo verranno ripresi in seguito da autori come Rabelais nel suo “Gargantua” e saranno anche rivisitati dai poemi eroicomici del Seicento. Quel che è certo è che, quando si parla di piaceri della tavola, la pasta non è quasi mai assente dalla narrazione, come se l’eccellenza dei suoi sapori fosse universalmente riconosciuta. Perfino nei racconti utopici, mentre altri prodotti vengono consumati così come sono, la pasta viene cucinata, trattata e plasmata, in questo caso dalle Muse del “Baldus”. Anche nel più assurdo dei contesti, la pasta ci riporta a temi quotidiani, alla semplicità e all’amore per la cucina.