Gli ingegneri parmigiani Mario e Giuseppe Braibanti di Parma e l’innovazione della tecnologia del pastificio

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Di Giancarlo Gonizzi

 

A Parma, là dove strada Nino Bixio, verso la sua fine, si scosta verso Est per sfociare nel piazzale circolare interno della barriera ottocentesca, sulla facciata Nord dell’edificio che un tempo ospitava l’Officina Meccanica Barbieri (poi stabilimento Robuschi), ancor oggi esiste un grande mosaico a monocromo di circa 3 metri e 30 per 2,60 raffigurante alcuni macchinari per la produzione della pasta. La sua storia curiosa merita di essere raccontata. E lo facciamo grazie ad un raro esemplare di quel macchinario, esposto al Museo della Pasta, recentemente aperto alla Corte di Giarola, presso Collecchio.

La Pressa continua Braibanti come appare nel catalogo di vendita del 1933 (Parma, Archivio Storico Barilla)
La Pressa continua Braibanti come appare nel catalogo di vendita del 1933
(Parma, Archivio Storico Barilla)

L’immagine del mosaico, risalente al 1938 e opera del pittore parmigiano Enrico Bonaretti (1893-1978), è idealmente divisa in due momenti temporali: a destra è raffigurato l’interno di un pastificio del XIX secolo con un asinello impegnato, con il suo continuo girare, a fornire la forza motrice ai diversi macchinari per la produzione della pasta. A sinistra troneggia, invece, una imponente pressa continua Braibanti, l’innovativo macchinario in grado di sostituire interamente tutti gli impianti descritti sul lato destro della scena.

La pasta fresca, nota fin dall’antichità in Grecia e a Roma, ma non particolarmente diffusa, divenne un alimento strategico nel Medioevo quando in area medio orientale si scoprì che l’impiego del grano duro ne permetteva, con l’essiccazione, una lunghissima durata. Questo ne fece il cibo ideale per i marinai e per le carovane commerciali, che avevano necessità di scorte alimentari per lunghi periodi.

Il pastificio Barilla nel 1936 impiantò una serie di sei presse continue seguita, nel 1938, da una seconda serie di sei macchine (Parma, Archivio Storico Barilla)
Il pastificio Barilla nel 1936 impiantò una serie di sei presse continue seguita, nel 1938, da una seconda serie di sei macchine
(Parma, Archivio Storico Barilla)

La prima citazione di una “fabbrica” di pasta in Italia risale al 1154 ed è opera dell’arabo Idrisi, (1100-1165 ca.), geografo e cronista alla Corte del re normanno Ruggero II, che nel descrivere la Sicilia, cita la località di Trabia, a pochi chilometri da Palermo, dove “si fabbrica tanta pasta in forma di fili che se ne esporta in tutte le parti, nella Calabria e in tanti paesi musulmani e cristiani anche via nave“. Dalla Sicilia, favorita, dalle estese coltivazioni di grano duro presenti in loco, la produzione si estese anche in Liguria, a Genova e in tutta la riviera di ponente, dove la produzione della pasta è documentata già nel 1244, e quindi a Napoli, a partire dal Seicento (il primo Statuto dei Vermicellari di Napoli è del 1579), che divenne la capitale riconosciuta della pasta nel XIX secolo, quando questo alimento – dapprima riservato a poche categorie o ai ricchi – divenne un cibo popolare e quotidiano, che si poteva acquistare e mangiare per le strade, condito con cacio e pepe. Solo agli inizi dell’Ottocento assisteremo al suo felice e indissolubile sposalizio col pomodoro.

Un lungo percorso tecnologico, databile tra il 1300 e il 1800, parallelo allo sviluppo delle varie Arti dei Pastai, aveva portato alla creazione di macchine e utensili sempre più grandi per alleggerire il lavoro umano nei laboratori artigiani.

Il pastificio Barilla nel 1936 impiantò una serie di sei presse continue seguita, nel 1938, da una seconda serie di sei macchine (Parma, Archivio Storico Barilla)
Il pastificio Barilla nel 1936 impiantò una serie di sei presse continue seguita, nel 1938, da una seconda serie di sei macchine
(Parma, Archivio Storico Barilla)

Così ognuna delle quattro fasi essenziali per la produzione della pasta aveva trovato uno specifico macchinario: l’impasto della materia prima, la gramolatura o raffinazione dell’impasto, la formatura dei diversi tipi di pasta, l’essiccazione finale e il confezionamento.

La semola, ricavata dalla macinazione del grano duro, preventivamente vagliata e setacciata per eliminarne le eventuali impurità, veniva impastata con acqua (fredda in Sicilia, Liguria e Abruzzo, calda a Napoli) in un recipiente di grandi dimensioni, inizialmente a mano o con l’uso dei piedi; in seguito con l’uso di una macchina – l’impastatrice, appunto – dotata di braccia meccaniche. L’apparecchio era solitamente collocato ad un livello superiore, per consentire di scaricare il contenuto, ribaltandolo, nella sottostante seconda macchina del processo: la gramola.

Poiché la semola è, per sua natura, vetrosa e fatica a impregnarsi d’acqua, si rende necessario un secondo trattamento – che potremmo quasi definire di “massaggio” – che permetta all’acqua di penetrare uniformemente nell’impasto, rendendolo più liscio e omogeneo. La prima citazione conosciuta della gramola si trova nell’Opera di Bartolomeo Scappi (fine XV sec.-1577), cuoco di papa Pio V, pubblicata nel 1570. All’inizio vennero adottate gramole a stanga azionate a mano anche da più uomini, quindi molazze di pietra mosse dalla forza idraulica e, infine, gramole “a coltelli” in legno oppure, le più diffuse ed efficaci, a rulli conici in metallo, a motore. Terminata la raffinazione, l’impasto era trasferito manualmente alla lavorazione successiva.

Enrico Bonaretti (1893-1978), La moderna pressa continua Braibanti sostituisce le macchine del vecchio pastificio, mosaico. Parma, Piazzale Barbieri, Ex Officine Barbieri,1938
Enrico Bonaretti (1893-1978), La moderna pressa continua Braibanti sostituisce le macchine del vecchio pastificio, mosaico.
Parma, Piazzale Barbieri, Ex Officine Barbieri,1938

Intorno al XV secolo iniziò a diffondersi la tecnica di formatura per estrusione, grazie all’impiego del torchio a vite, citato esplicitamente per la prima volta in un testo del 1548 da Cristoforo Messisbugo (fine 1400-1548), scalco alla Corte di Ferrara. Il torchio, inizialmente realizzato in legno con la sola “campana” in bronzo, nell’Ottocento verrà prodotto in ghisa, aumentandone sensibilmente le dimensioni e la resa produttiva. Al termine della bocca del torchio veniva incastrata la trafila che, grazie ai suoi fori di differenti forme e dimensioni, permetteva la fuoruscita dei differenti formati, tagliati poi manualmente dal pastaio o da un coltello meccanico.

A questo punto della lavorazione era necessario disporre la pasta appena uscita dalle trafile su ampi telai a rete, se corta, o stesa su canne, se lunga, per consentirne l’essiccazione corretta e adeguata, indispensabile per la successiva conservazione del prodotto e utile anche per la tenuta in cottura.

La pasta poteva ora essere preparata per la spedizione, inserita in ceste di scorza di castagno (corbelli) foderate di carta o in casse di legno o in sacchi di cotone, pesati uno ad uno. Giunta per ferrovia o via mare a destinazione, il negoziante la estraeva dall’imballo (che doveva essere restituito al pastificio) e la disponeva nel grande mobile a cassetti o in scenografici vasi di vetro presenti nel negozio, pronta per essere venduta, sfusa, ai vari clienti, che la ricevevano impacchettata in cartocci di carta per alimenti dal caratteristico colore azzurro.

Fortunato Depero (1892-1960), Bozzetto per il calendario Braibanti,1952 (Parma, Archivio Storico Barilla)
Fortunato Depero (1892-1960), Bozzetto per il calendario Braibanti,1952
(Parma, Archivio Storico Barilla)

Nel primo quarto del Novecento si registrarono numerosi tentativi di automatizzare i vari momenti di produzione, per ridurre gli scarti e i tempi morti tra una macchina e l’altra e aumentare l’igiene e la qualità del prodotto.

Il 6 ottobre 1917 il francese Féréol Sandragné (1844-1929), impiegando una tecnologia già adottata nell’industria dei laterizi per la produzione di mattoni forati, brevettava una pressa nella quale il compito di impastare era affidato ad una lunga vite continua. Non era più necessario, quindi, ricaricare la macchina ad ogni fine corsa e i tempi di produzione si accorciavano notevolmente. Dal 1929 al 1939 la Mécanique Méridionale, a cui l’inventore aveva ceduto il brevetto, ne produsse mediamente una al giorno, esportandole anche in paesi lontani.

Gli ingegneri Mario (1896-1970) e Giuseppe Braibanti (1897-1966), figli dell’ingegnere Ennio Braibanti (1860-1898), titolare dell’omonimo pastificio fondato a Parma lungo la strada di Valera nel 1870, avevano seguito entrambi le orme paterne: Mario, dopo il servizio militare in Aeronautica durante la Grande Guerra, si era laureato in ingegneria meccanica al Politecnico di Milano nel 1922, un anno dopo il fratello Giuseppe, ufficiale del Genio durante la Grande Guerra. Insieme avevano aperto a Milano nel 1928 uno studio per la progettazione di impianti per pastifici.

E dopo cinque anni di ricerche e sperimentazioni, nel 1933 riuscirono ad unire impastatrice, gramola e pressa in una unica macchina in grado di lavorare la pasta in modo continuo e la sperimentarono presso il pastificio di famiglia. L’innovazione fu rivoluzionaria e già negli anni Trenta del Novecento i fratelli Braibanti produssero presso l’Officina Meccanica di Tomaso Barbieri (1890-1944) a Barriera Bixio e vendettero centinaia di esemplari della loro macchina, progressivamente ingrandita e migliorata.

La pressa continua Braibanti del 1942 esposta al Museo della Pasta
La pressa continua Braibanti del 1942 esposta al Museo della Pasta

Al Museo della Pasta è visibile una pressa continua automatica di terza generazione, databile al 1942, alta sei metri e del peso di quindici quintali, proveniente dal Pastificio Braibanti e appositamente restaurata dai tecnici del Gruppo “Medaglie d’Oro” Barilla per l’esposizione.

Riccardo Barilla (1880-1947) titolare del Pastificio di Barriera Vittorio Emanuele, aveva fatto installare nel 1936 una prima serie di sei presse Braibanti e nel 1938 una seconda serie di sei esemplari, dotando così il suo stabilimento di macchinari d’avanguardia già alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale.

I fratelli Braibanti, dal canto loro, nel dopoguerra spostarono la produzione delle presse nelle officine di Rovereto e nel 1952, per pubblicizzare i propri macchinari, si avvalsero anche della matita di Fortunato Depero (1892-1960), geniale artista futurista originario proprio di Rovereto.

Ancor oggi il mosaico di Barriera Bixio riproduce il modello della prima pressa continua Braibanti e rievoca la storia di una innovazione nata a Parma e oggi diffusa in tutto il mondo.