Per una storia dell’arte dei fornai a Parma

La lunga “historia” del pane, dei forni e dei fornai, inizia a Parma molto prima del sec. XIII; ma è solo nell’Anno Domini 1236 che la corporazione dei fornai si diede gli statuti propri dell’Arte[1], sia per disciplinare un’attività cosi importante per la sussistenza e tranquillità politica della città, sia per difendere i propri interessi che non sempre collimano con quelli dell’autorità.

A parte gli obblighi sanciti dagli statuti comunali, comuni a tutte le arti o “misteria” nei confronti della pubblica amministrazione e della Chiesa, anche lo statuto dell’arte dei fornai aveva proprie norme che riguardavano la salvaguardia del pubblico, il mantenimento del buon nome e decoro dell’arte, la conservazione della pace, perché tra tutti i membri della corporazione regnasse sempre quello spirito d’amore e concordia che si traduceva poi nella mutualità e nel soccorso tra gli stessi.

E perché quell’arte così necessaria fosse retta da savie e sicure leggi, gli statuti comunali avevano stabilito gli obblighi precisi che i fornai della città dovevano osservare per non incorrere in pene severissime[2]: di cuocere bene il pane “et levare seu saxonare” (lievitare)[3] tutti i giorni, eccetto alla domenica e nelle feste principali, di custodire con diligenza la casa perché nessuno potesse rubare la pasta o la farina che veniva portata al forno. Il fornaio era inoltre responsabile degli eventuali furti perpetrati nel suo forno, del pane mal cotto o bruciato dai suoi lavoranti, dei “propria vasa, corbe, (da cui “corbelli” = ceste) pulchra firma et necta”, del pagamento del dazio e del calmiere, della confezione del pane secondo il peso stabilito[4].

Le successive redazioni degli Statuti di Parma (tra il 1253 e il 1347) contenenti rubriche relative al costo della cottura del pane, che variava secondo i tipi di grani usati per la confezione (di frumento o di mistura di spelta, fava, miglio), testimoniano una evoluzione nei consumi alimentari nel senso di una progressiva prevalenza del pane di frumento e di un minor consumo dei grani cosiddetti minori[5].

La politica di potenza e di espansione dei Visconti, che conquistarono Parma “più col denaro e gli intrighi che con le armi”, fece sì che anche le corporazioni d’Arte e Mestieri, che attraverso dure lotte erano riuscite ad introdurre negli organismi politici del Comune i loro rappresentanti, perdessero ogni autonomia ed ogni capacità di intervento negli affari della città[6]. Così anche i combattivi fornai dovettero adeguarsi ad una politica di accomodamento che vedeva il loro pane non più venduto a credito “ad texeram”[7], bensì bollato, a testimonianza del debito d’imposta dei fornai verso i dazieri che li obbligavano a fare il pane nella quantità voluta e a venderlo nei luoghi stabiliti: i portici della chiesa di San Pietro e San Vitale, la Piazza Grande, il portico dei calzolai nella piazzetta di San Paolo, il portico degli speziali da Santa Cristina, il portico della chiesa di San Tomaso e la piazzetta di San Gervaso[8].

Alle multe severe e alle pene corporali (i famosi tre tratti di corda, da esibirsi in pubblico) per gli inadempienti si aggiungevano i severi controlli sui forni da parte dei dazieri, dei “cercatores”, degli Ufficiali del Divieto; le ruberie degli “sfrosatori di grani” che facevano lievitare enormemente i prezzi del frumento e, per conseguenza, quello del pane; la scarsità dei raccolti, le carestie endemiche, le pestilenze che svuotavano sistematicamente le città, le soldatesche che depredavano il territorio e levavano l’acqua dei canali per impedire la macinazione dei grani.

Né è da dimenticare l’ostinata diffidenza delle autorità cittadine contro “le fraudi” dei panettieri che, a dir loro, rubavano sul peso e sulla qualità delle farine. E per ovviare a queste “fraudi” gli Anziani, nel 1484, ordinarono che il peso di una grezia, o tera, o filo di pane non fosse minore di quattro libbre, pena le sanzioni minacciate dagli Statuti[9].

Con l’avvento di casa Farnese, in una economia sostenuta quasi esclusivamente dall’agricoltura, sotto l’incubo delle carestie e della fame che poteva sovvertire i già fragili equilibri politici del piccolo Ducato parmense, la soluzione del problema annonario veniva anteposto a qualsiasi atto di governo[10]. Le minuziose e giornaliere informazioni del Governatore di Parma al Duca sulle entrate e uscite dei grani dalla città[11], gli affannosi approvvigionamenti di derrate alimentari – 180.000 stare di frumento ogni anno – necessarie a riempire i capaci granai e i magazzini sparsi per la città, la scrupolosa osservanza dei Bandi e Grida da parte di tutti, nessuno escluso, “perché il beneficio popolare sia preferito al privato dei particolari”[12], la ferrea esecuzione delle pene comminate per chi frodava il fisco, testimoniano, solo in parte, l’ossessiva preoccupazione dei Duchi e le provvidenze attuate dagli stessi perché “L’Ufficio Pinguedinis ossia dell’abbondanza” potesse mantenere sempre abbondante di grano e vettovaglie la città[13].

Anche il lavoro dei fornai aumentò enormemente: oltre al consumo consueto per i cittadini, c’era il pane da fornire alla Corte e per mantenere i cani della Duchessa, per approvvigionare le truppe, i carcerati, gli esposti, gli operai, i manovali e braccianti che lavoravano ai bastioni[14], alla Cittadella e ai ponti; c’erano gli affamati del contado che bussavano alle porte della città, perché spesso morivano di fame, c’era la distribuzione di pane ai poveri, ai monasteri, agli indigenti e cosi via.

I fornai, benché sottoposti a stretta vigilanza dai conduttori del Dazio della Macina, perché il pane bianco, o buffetto, o nero fosse sempre fabbricato secondo il calmiere e secondo le norme dettate da regolamento[15], pure riuscirono, durante i 186 anni della dominazione farnesiana, ad ottenere importanti riconoscimenti da parte degli Anziani e dei Duchi. Nel 1553, i minuziosi capitoli stilati tra i cinque maggiori fornai della città (tra cui un Ovidio Barilla antenato degli attuali pastai) e i deputati dell’Abbondanza per la Società della fabbrica del pane venale (nei nuovi forni dell’abbondanza costruiti in casa Ajani)[16] sono indici di una acquisita, seppure sofferta, fiducia reciproca. Nel 1576, con la rinnovata convenzione tra la Magnifica Comunità di Parma e i fornai, essi vennero esentati da ogni obbligo di servizio militare, da ogni punizione corporale, se avessero fabbricato “il pane mal cotto o manco bianco, o mancante di peso e mal fabbricato” e venne concesso loro di poter comperare frumento da chiunque, in città e fuori, e che “ciò non li potesse esser proibito per qualsivoglia causa non ostante qualunque Statuto ed ordine che facessero in contrario”[17].

Nei dieci lunghi anni di carestia (dal 1590 al 1600), durante i quali furono necessari, da parte dei Duchi e delle civiche autorità, sforzi coraggiosi per approvvigionare la città e per frenare gli abusi nel commercio dei grani e della carne, ogni pane era buono per saziar la rabbia della fame: da quello fatto con castagne secche, ghiande ridotte in farina, a quello di gramigna seccata e sfarinata e radici d’erbe. I fornai ebbero l’obbligo di fare per i cittadini solo pane misturato con 1/4 di fava; per i lavoranti al “Novo Castello” quello confezionato con una mistura di risone vestito e fava; per i militari pane mezzo nero e mezzo bianco; per i contadini ed altra gente bassa un’altra sorte “manco buona per più sparagno”[18]. Solo un fornaio al giorno poteva fabbricare pane bianco sfiorato e di buffetto che, in forma di pagnotta, serviva per le donne lattanti, per i deboli di stomaco, gli infermi e i vecchi. Ai fornai, offellari e pristinari fu proibito di “fare chizolle, brazadelli, offelle, buzzolani, chizolette, feste, confortini e biscottini”.

Per ovviare alle pressoché giornaliere frodi dei grani, si susseguirono, per tutto il Seicento e Settecento, con una esasperante monotonia, le Grida, i Bandi gli Avvisi penali. Essi riguardavano pene più esemplari per i trasgressori, controlli più severi degli Impresari della Macina su bollette e dazi, visite giornaliere alle botteghe dei fornai e dei pastai, da parte dei vicari calmieranti, sequestri di grani disposti da Governatore, sospensione dei mercati sospetti, processi contro le frodi di mugnai (specie quelli bussetani che levavano la farina buona per mescolarla alla cattiva), perquisizioni armate anche nelle canoniche dei parroci. Ma tutte queste misure non riuscirono, se non in modo assai ridotto, a contenere la piaga del contrabbando degli “strattoni o sfrosatori di grani”: un’attività particolarmente intensa e svolta, si può dire, alla luce del sole, lungo la linea del Po e ai confini dell’Appennino tosco-ligure-emiliano.

Nel Settecento l’Arte dei fornai, che aveva la sua sede nel convento dei Padri Riformati, nella vicinanza di Santa Maria Maddalena, si divise in due: i fornai da “Massaro” che si dedicavano alla cottura del pane fatto in casa dai privati (e di cui si conoscono gli Statuti del 1724) e i fornai “da pan venale” che facevano il pane da vendere al minuto, i cui antichi statuti[19], riscritti nel 1740 perché “corrosi dall’antichità del tempo e perché non troppo intelleggibili per la stranezza dei caratteri”[20], dovevano rimanere, in copia autenticata, sia presso l’anziano dell’Arte dei fornai, sia agli atti della Comunità.

Nel 1763, nonostante i vincoli posti dagli Statuti dell’Arte, si introdusse e stabilì in Parma dal sarzanese Stefano Lucciardi, la fabbricazione delle paste fini “ad uso di Genova” fatte, però, quasi esclusivamente, con grani piacentini. Il Primo Ministro Du Tillot gli concesse la privativa decennale, forse anche per arginare le frodi che facevano i pastai della città, di Borgo San Donnino (Fidenza), Fornovo e Langhirano, che esportavano fuori dal Ducato notevoli quantità di pesi di paste, con la connivenza dei mulattieri, soldati, dazieri e con la collaborazione, spesso, della popolazione[21].

Il periodo che va dal 1765 alla fine del secolo vide i fornai impegnati in una azione energica e continua per difendere dal potere politico la propria indipendenza economica, raggiunta faticosamente e consolidata nella proprietà della casa e della bottega. Ne sono testimoni le lotte sostenute contro l’accentrata politica calmierante sui grani, farine e pane, contro l’aumento del doppio salario[22] ai lavoranti fornai, contro l’abolizione di pane buffetto, ecc.[23]. Nel 1782 il “Nuovo Regolamento della Tariffa del Pan venale”, stilato dalla R. Condelegazione, unitamente agli Anziani della Città[24], lasciò ai diciannove fornai, esercenti l’attività, il profitto di 1/4 d’oncia di peso per ogni cavallotto di pane e il poter fabbricare e vendere la pasta liberamente.

In base a questo regolamento i fornai furono obbligati a fare due tipi di pane: il pane bruno, (di peso maggiore di due once di quello bianco), il pane bianco tagliato, ben lavorato, di pasta dura, a forma di cornetti pagnotte, berrette, fili e filetti, di giusto peso e qualità perfetta. Il pane francese, sostitutivo del pane buffetto, doveva essere fabbricato con una speciale licenza mentre i cornetti grossi, di tipo reggiano, si potevano confezionare solo in forma più piccola, da due soldi l’uno.

Nel 1791 le continue lagnanze popolari, sul particolare colore rossiccio del pane e su quello nericcio della pasta, avevano costretto il Governatore di Parma a imporre una visita a tutti i fornai pastai della città[25]. Dal controllo fatto, un solo fornaio aveva pane veramente bello e perfetto nella cottura, peso e colore (quello del fornaio Restani); anche la mediocrità della pasta, che era di cattivo colore e odore, risultò chiaramente dal controllo. Stando così le cose, e per evitare che i fornai e pastai senza scrupoli rovinassero il buon nome dell’Arte dei fornai, l’arte stessa nel 1797[26] chiese al Duca che per legge statutaria i fabbricanti di pasta dovessero in avvenire dipendere dall’arte dei fornai da pan venale, dovessero avere il proprio numero distinto e potessero tenere nella loro bottega fino a tre torchi[27].

Inoltre per impegnare fornai e pastai a fabbricare pane e pasta delle migliori qualità, gli Anziani lasciarono libertà ai postari (coloro che vendono il pane nelle “poste” della piazza), di provvedersi di pane da quei fornai che fabbricavano pane di qualità perfetta, obbligando nello stesso tempo i fornai a bollare il loro pane[28].

Agli inizi dell’Ottocento, una stagione particolarmente carente di grani aveva costretto le autorità cittadine a riaprire due magazzini di farina di granturco, per sovvenzionare i poveri che morivano di fame: uno, in casa Bertolotti, presso San Francesco del Prato, l’altro in casa di Francesco Becchetti, al di là del torrente. E poiché i contadini e gli abitanti delle montagne erano costretti a mangiare pane di ghiande e noci, il Governatore di Parma, Politi l’11 settembre 1800 richiese che venisse ripresa la fabbricazione di pane di frumento e granturco per la città e di granturco e fava per gli abitanti del contado. Furono vietati i pani di lusso e, in particolare, le spongate che si facevano per Natale.

La battaglia per la reintegrazione in città del pane di lusso, corrispondente al pane buffetto, confezionato col più bel fiore di farina, durò per lo spazio di tre anni. Da una parte del fronte stavano i fornai che, forti delle richieste scritte dai nobili, che ogni giorno mandavano a prendere, dai loro staffieri, il pane di lusso per la loro tavola, invocavano a gran voce la fabbricazione di questo genere di pane che procurava loro indubbi guadagni; dall’altra parte del fronte, stavano la Civica Prefettura della Grascia e gli Anziani della città che negavano ai fornai il permesso di fabbricare e vendere il pane di lusso il quale, togliendo al frumento la parte migliore della farina, avrebbe reso il pane comune di qualità più scadente ed inferiore a quello che esigevano le leggi vigenti[29]. In questa battaglia il pane di lusso ebbe la meglio, però dovette sottostare a certe imposizioni: cambiare forma, essere bollato con un bollo speciale, essere venduto allo stesso prezzo del pane bianco francese, essere sottoposto al calmiere fissato dagli Anziani in proporzione ai prezzi del frumento[30].

Durante i trent’anni di regno di Maria Luigia, si sviluppò il commercio interno che coinvolgeva anche i centri minori e le esportazioni limitate ai paesi confinanti, (Lombardo-Veneto, Regno Sardo, Ducato di Modena). Continuavano però gli abusi ai danni della popolazione da parte dei pastai che confezionavano paste di semola di frumento, vermicelli fini, pasta bianca e pasta ordinaria. Cosicché il Podestà Lebrun, con ordinanza del 19 aprile 1833[31] dispose prezzi e pesi fissi a seconda che la pasta fosse “venale, o verde ossia fresca, o mezza verde ossia bazza”.

Nel 1840 venne accordata ai fornai la libera contrattazione del pane di lusso[32]. I fornai che servirono la corte, il Melley prima, il Maini poi, non sempre rispettavano i contratti annuali con la casa di Sua Maestà, nei quali si esigeva che le forniture fossero sempre della migliore scelta[33].

Nel 1845 la qualità del pane del Maini, seppur buona, non venne ritenuta sufficiente per la tavola della Duchessa e così, per un certo tempo, elle fece confezionare il pane da un fornaio di Milano, Michele Oman il quale ogni giorno, lo inviava a Parma con le diligenze di posta.     Dopo la morte di Maria Luigia e il ritorno dei Borboni, si venne a creare una situazione economica assai delicata e difficile che fece sentire le sue conseguenze sulla qualità del pane smerciato in tutto il Ducato[34].

Con l’unificazione italiana la Destra Storica (1861-1876) si mise al lavoro per uniformare il mercato nazionale e favorire lo sviluppo dell’industria praticando quella politica liberistica che consolidò la società industriale e sancì la supremazia politica della borghesia.

Con la crescita economica del 1850/70 l’agricoltura cominciò a meccanizzarsi, la diffusione e la rapidità dei trasporti, sia ferroviari che marittimi, facilitarono ovunque la vendita dei prodotti. Nel 1881 la diffusione del telefono fu rapida anche nel parmense favorendo notevolmente i commerci. Le grandi Esposizioni Nazionali ed Universali, espressione spettacolare ma concreta del trionfo della borghesia, serviranno, tra l’altro, a far conoscere i prodotti altrui per migliorare i propri. Le medaglie e i diplomi d’onore, che si trovano elencati sulle etichette dei prodotti e sulla carta intestata di molte imprese, sono orgogli a cui gli industriali terranno in modo particolare per propagandare le loro offerte di produzione. È tutto un mondo in fermento, aperto al nuovo, che né l’arresto dello sviluppo economico per eccesso di produzione dopo il 1870, né le tonnellate di grano a basso prezzo, provenienti dall’America del Nord e dalle pianure cerealicole russe, potranno fermare.

Sorgono le prime società operaie, per una nuova consapevolezza dei diritti dei lavoratori e della difesa dei propri interessi, si moltiplicano le Società di Mutuo Soccorso, le associazioni di mestiere, le leghe di resistenza, le prime forme cooperative con lo scopo di una mutua assistenza e di un miglioramento delle misere condizioni di vita delle masse lavoratrici, attraverso metodi di lotta, primo tra tutti lo sciopero.

A Parma, i lavoranti fornai e pastai si uniranno in Società di Mutuo Soccorso e scenderanno in sciopero nel 1883 per ottenere l’aumento del salario e il riconoscimento del lavoro a cottimo; nel 1895 lo sciopero per l’abolizione del lavoro notturno, anche se non ottenne i risultati sperati, poté contare su un appoggio politico-sindacale maggiore e sulla solidarietà di diversi strati della popolazione.

Anche gli imprenditori costituiranno nel 1885 la Società dei negozianti Fornai e Pastai della città e l’anno successivo daranno vita alla Società di Mutuo Soccorso tra padroni e lavoranti fornai e pastai, di cui sarà Commissario il fornaio Bassano Gnecchi[35]. […].

I loro autorevoli pareri saranno tenuti in considerazione dalle autorità; la loro azione incisiva e lungimirante anticiperà tempi e fatti e trascinerà anche gli altri imprenditori fornai della città a battagliare perché l’industria parmense ritornasse ad essere il motore trainante dell’economia, non solo locale, e fosse rispondente a princìpi di una vera e saggia libertà.

Nella vertenza tra lavoranti fornai e pastai del 1883 per ottenere miglioramenti salariali, molto importante fu l’opera di mediazione condotta dalla Commissione dei negozianti fornai, composta dal Presidente Bassano Gnecchi e dai consiglieri Dalmazio Zucchi, Ferdinando Barilla, Giovanni Giordani e dal segretario Emilio Marinelli. A questa si aggiunge l’opera di mediazione di Ercole Berzioli, rappresentante dei lavoratori fornai e pastai, perché si raggiungesse pacificamente un accordo soddisfacente.

Lo sciopero, che si era cercato in tutti i modi di scongiurare, fu deliberato il mattino del 12 settembre 1883 e durò cinque giorni. I lavoranti di ventidue forni su ventotto furono rimpiazzati dai panettieri militari e così si poté assicurare alla città il solito quantitativo di pane e pasta[36].

A fine secolo l’industria alimentare, benché condotta ancora a livello famigliare-artigianale e legata alle produzioni locali, rappresentava una voce importante dell’economia del territorio: ben ventuno erano le fabbriche di paste da minestra, che occupavano sessantuno operai; mulini di città e provincia macinavano 326.000 quintali di frumento e 314.000 quintali di altri cereali, dando lavoro a 902 persone[37].

L’arrivo in città di nuove forme di energia, quali il gas e l’elettricità, il completamento del servizio ferroviario e tranviario e il rapido sviluppo delle industrie meccaniche legate alla lavorazione dei prodotti agricoli, daranno una notevole spinta, nei primi anni del Novecento, al processo di trasformazione e modernizzazione degli impianti delle industrie di pane e pasta. Sarà quello il periodo che vedrà chiaramente differenziarsi l’artigianato dall’industria.

Tratto da: M. Castelli Zanzucchi, Pane per la città, in Barilla, 100 anni di pubblicità e comunicazione, a c. di A.I. Ganapini – G. Gonizzi, Milano, Silvana Editoriale per Barilla, 1994, pp. 39-42.

[1] Archivio Stato di Parma (ASPR) Gli originali pergamenacei degli Statuti dell’arte dei fornai sono due: quello del 1236 (che forse è una traduzione del 1583) è scritto in volgare, quello del 1461 è scritto in latino ed è perfettamente uguale a quello del 1236.

[2] MICHELI Giuseppe, Le corporazioni parmensi d’arti e mestieri. Parma, 1899.

[3] Saxonare = lievitare (Statuti 1255).

[4] ASPR, Statuto del 1266/1304.

[5] PINTO G., Le fonti documentarie alto-medioevali in “Archeologia Medievale”. 1981.

[6] BERNINI Ferdinando, Storia della città di Parma. Parma, Battei, 1979, pp. 84-85.

[7] Tessra = legno spaccato in due per il lungo sul quale si fanno piccoli segni per memoria, a riprova di coloro che danno e tolgono roba a credito. Cfr. BATTISTI, Dizionario Etimologo Italiano, Firenze 1954. Ad vocem. PESCHIERI Ilario, Dizionario Parmigiano Italiano. Parma 1859, vol. 4. p. 283.

[8] Questi luoghi corrispondono al centro e alle stremità della Parma romana.

[9] ASPR, Ordinazioni comunali 1480/91. Sembra che la Grezia indicasse più pani uniti insieme (PEZZANA Angelo, Storia di Parma. Parma, Reale Tipografia, 1837-1859. Vol. V. p. 8 nota 3).

[10] ROMANI Achille, Nella spirale di una crisi. Milano, Giuffrè, 1975. p. 90.

[11] ASPR, Annona, b. 2 (1590).

[12] ASPR, Annona, b. 2 (Lettera di Alessandro Farnese da Bruxelles 8.II.1656).

[13] ASPR, Comune, b. 653 (Elezioni dei deputati dell’Ufficio Pinguedinis 30.VI.1551).

[14] ASPR, Gridario, b. 2128.

[15] ASPR, Comune, tesoreria, b. 1786. I fornai erano obbligati (5.XII.1561) a pagare al conduttore del dazio della Macina due calmieri: quelli su ogni staro di grano, necessario per fabbricare il pane, e quello sul peso del pane fabbricato.

[16] ASPR, Comune, b.1786.

[17] ASPR, Comune, Arti, b. 1864. (Convenzione di durata biennale del 28.IX.1576).

[18] ASPR, Congregazione del Divieto, b.3 (2.XII.1590).

[19] Gli statuti del 1461 furono redatti al tempo di Francesco Sforza, duca di Milano, Parma e Cremona.

[20] ASPR, Comune, Arti, b. 1874.

[21] ASPR, Annona, b. 29 (Lettera del Governatore Arcelli al Du Tillot 8.VIII.1760).

[22] ASPR, Annona, b. 45/46A.

[23] ASPR, Annona, b. 31.

[24] ASPR, Comune Arti b. 1874 la “Tariffa del pan venale” fu compilata da Stefano Triumfi nel 1633 e fissata nel 1677.

[25] ASPR, Annona, b. 41 (Lettera al Du Tillot 17.XII.1791).

[26] ASPR, Annona, b. 29.

[27] ASPR, Comune, Arti, b. 1874 (14.VII.1755).

[28] ASPR, Annona, b. 45/46A.

[29] ASPR, Annona, b. 47/48bis.

[30] ASPR, Comune, b. 3033 e Gridario, b. 2160.

[31] ASPR, Comune, b. 2170.

[32] ASPR, Comune, b. 3040.

[33] ZANNONI Mario, A tavola con Maria Luigia. Parma, Silva, 1991. p. 127.

[34] BOSCHI G. Cesare, L’economia ducale dal 1815 al 1859 in “Gazzetta di Parma”, 1993, 1.XI, p. 3.

[35] ASPR, Gabinetto di Prefettura, b. 159.

[36] ASC, Polizia 3, b. 723.

[37] MEDICI Romeo, Le condizioni industriali di Parma nel 1980, in “Parma Economica”, 1991, IX, p. 42.