Storia della antica Bûtega da fidiâ Sivori ovvero da-o Bolàn
Per prima cosa, vista la confusione creata da chi, in anni recenti, parla di questa pasta corta “semifresca”, per secoli esclusivamente casalinga, occorre partire dall’etimologia del suo nome.
Krosu era una voce prelatina, significante incavare, probabilmente gallica poi passata in latino dove abbiamo il termine corrosus, cioè incavato (ad es. da erosione), transitato in italiano con significato analogo.
Krosu, forse tramite il latino, ma più facilmente in modo diretto, è passato nell’occitano e da questo nel francese moderno e nella lingua ligure, con ampia diffusione in tutta la Francia centromeridionale e nell’Italia nordoccidentale.
Tale voce che, come vedremo, è molto frequente come aggettivo in varie espressioni, è presente in toponimi liguri, piemontesi e lombardi: la forma più orientale è a Coli (Pc) col significato di “avvallamento”.
I toponimi odierni in cui il termine è abbinato a rio/valle, tipo Vallecrosia e Fosso Recroso (Borzonasca), sono tautologie, cioè ripetizioni, giacché il termine è sinonimo di fosso/valle nell’indicare località: cito i semplici Recroso a Moneglia e i Crosi, tre distinti luoghi a Borzonasca. Troviamo l’uso come aggettivo toponomastico ad es. in Cian creuso (lett.te “piano incavato”), a Calcinara di Uscio, località molto frequentata per le feste campestri per le sue “accoglienti” caratteristiche.
Sono poi diffusissime in tutta la nostra riviera e stradde creuse, in breve e creuse, le vie campestri incassate o comprese tra due muri, di solito in pendenza (a Chiavari quelle in piano tra gli orti erano invece chiamate cantetti), talora traverse delle vie principali. Sulle colline chiavaresi, nelle frazioni Campodonico e Ri, abbiamo due identici toponimi “strada vicinale della crosa”. In un documento medioevale si legge via qui dicitur crosa.
Per evitare equivoci aggiungiamo che krosu non va confuso col meno antico toponimo cioso (ad es. la località o cioso di san Bartolomeo di Leivi), derivante dal latino clausus, che identifica un piccolo podere recintato nell’ambito di insediamenti e colture.
E ancora: o creuso in lingua ligure (“cavità” in italiano), col diminutivo creusetto, corrisponde al francese le creux (creuser significa scavare/incavare) e all’occitano croset (vedi le espressioni: o camin creuso e a stradda creusa e le chemin creux, mentre la creuse noire è la fossa nera, il fossato), i euggi creusi (gli occhi incavati) e le creux des yeux (l’incavo degli occhi), o creuso da man (il cavo della mano, la parte opposta al dorso), do zenoggio, de l’ascella e le creux de la main, du genou ecc. Abbiamo poi e masche creuse, le guance infossate, o creuso da veja, la pancia della vela quando è gonfiata dal vento, ûn descorso creuso, parole vuote.
Veniamo alla pasta: per la denominazione di questa pasta corta casalinga è avvenuta, nella lingua ligure, una metatesi inversa rispetto al consueto: se a corvo corrisponde cròu e a capra crava, il creusetto si è trasformato prima in crosetto e poi in corzetto, dove la z sostituisce la s (dolce) non più intervocalica: la pronuncia rimane però la stessa, cosa che spesso sfugge ai distratti, quella di “rosa, casa, marchese”.
Quanto detto sin qui evidenzia come la forma lessicale croxetti, di uso piuttosto recente, sia solo una deformazione in un francesismo spurio. Sarebbe meglio evitarne l’uso, anche perché è all’origine delle pseudo etimologie che tirano in ballo il “crosazzo”, moneta seicentesca dell’antica repubblica di Genova, o il “crocetto” impresso sulle ostie della liturgia cattolica: perché a croxe, la croce, con i corzetti non c’entra proprio nulla.
Nel latino medioevale del Duecento del testo del federiciano Liber de coquina troviamo ancora scritto croseti.
L’antica ricetta, riferendosi al tipo modellato con i polpastrelli, dice: …eodem modo fiunt croseti, et de eadem pasta, nisi quod sint formati rotundi et oblungi ad quantitatem ninius pollicis; et cum digito sunt concavati (e sono incavati col dito). Est tamen sciendum quod, tam in lasanis quam in crosetis, debet poni magna quantitas casei grattati ( Si sappia che, tanto nelle lasagne che nei corzetti, occorre mettere abbondante formaggio grattugiato).
Come si vede, anche per i corzetti, vale il vecchio detto o formaggio o no guaste i maccaroin (anzi, li migliora!).
Abbiamo appena letto che occorreva concavare col dito i corzetti in un pezzetto di impasto rotondo e oblungo come un piccolo dito: con questo sistema si preparano quelli che in Liguria sono chiamati i corzetti tiæ coe dïe ovvero ä pönçeviasca (al modo della val Polcévera): premendo e incavando pezzetti di pastume, poco più grossi di un cece, con gli indici delle due mani, essi assumono la tipica forma a eutto pin, a otto pieno, i cui due creusi, le fossette, mancano però in quelli industriali trafilati a macchina. Essi sono tradizionalmente conditi con burro fuso, persa (maggiorana) fresca e pinoli. Analoghi sono i corzetti di Voltaggio e di Carrosio che, essendo realizzati con l’indice e il medio di una sola mano, presentano un incavo con un bordo più rilevato.
La ricetta, poco fa citata, è tratta dal celeberrimo manoscritto già ritenuto angioino e recentemente attribuito alla corte pugliese-palermitana di Federico II: comunque agli Angiò rimane il merito, quand’erano ancora conti di Provenza, d’aver fatto conoscere il croset occitano alla corte napoletana di Carlo II portandolo sino in Basilicata e in Puglia. Là sopravvivono ancora nuclei linguistici della lingua provenzale duecentesca e la pasta “incavata” conosciuta come orecchietta: pare che questa sia comparsa a Sannicandro di Bari tra il XII e il XIII secolo durante la dominazione normanno-sveva. L’orecchietta, laggiù preparata con le cime di rape, ha un solo incavo perché realizzata col solo dito pollice, con il fondo più sottile del bordo, alla maniera del croset provenzale. Questo è oggi detto alla francese courzetin e in Provenza è solitamente preparato en gratin. Mentre l’impasto pugliese è tuttora di sola farina di grano duro, acqua e sale, nell’area franco-provenzale-ligure l’antico pastume era fatto col grano saraceno, poi si è usato il grano duro e infine quello tenero con l’aggiunta di uova. Oggi i corzetti dei vari tipi geografici sono così classificati tra la pasta corta semifresca all’uovo.
Alcuni esempi del croset/courzetin franco-provenzale, tutti vicinissimi alla radice primitiva krosu: nell’Oisans c’è il krozè, in Savoia ad Albertville troviamo il croêze/croêjû, nell’Alta Savoia a Annecy il croezû, che un poco più a est, a Thônes, è detto croezet.
I crosetz savoiardi e i courzetins provenzali, tutti accomunati dall’incavo singolo praticato col pollice, si sono diffusi nelle valli occitane piemontesi, in particolare in valle Stura, e non dissimili sono i torsellini di Asti.
In valle Stura i tocchetti dell’impasto (di grano tenero e uova) sono incavati con il pollice su una spianatoia rigata che lascia una tipica pieghettatura sull’esterno della “conchiglia”. Un tempo era lodata la ragazza da marito che riusciva a realizzarvi 18 pieghe. Il condimento tipico era la bagna grigia, una salsa di formaggio, panna, cipolla e pepe, o la salsa di acciughe e aglio, sul tipo della bagna cauda.
I corzetti stampæ, rispetto ai vari tipi di corzetti tiæ coe dïe, sono del tutto diversi nell’aspetto, ma non nell’impasto (salvo quando si utilizza la pasta matta, con farina di castagne) che però non viene spezzettato ma spianato nella crosta de lasagne tiâ cö cannello, la sfoglia da lasagne lavorata col matterello. Da questa vengono “ritagliati” con o taggiapasta da stampa da corzetti, il tagliapasta che è parte dello speciale stampo.
I corzetti stampæ, rimasti più a lungo nell’uso nella Riviera di Levante, nel passato anche a Genova erano ben conosciuti. Steva De Franchi, nelle sue commedie settecentesche, li cita due volte: nella Ra locandera de Sampê d’Arenn-a fa dire a Ghiggiermo che per trovare un marito bell’e pronto per la figlia … l’ho da stampâ comme ûn corzetto! (dovrei stamparlo come un corzetto!) e nell’Avaro fa dire ad Arpagon, che si lamenta di non poter far spese: … son ciû povero de Fræ Corzetto! In effetti era una pasta tutt’altro che povera: nel ‘700 un piatto di corzetti, per la lunga lavorazione, costava quasi il doppio di uno di ravioli.
L’attrezzo per i corzetti, a stampa/ a forma, consiste in due distinti elementi lignei da usare sovrapposti, l’inferiore cilindrico con la faccia superiore piana e intagliata (incavata, “corrosa”) con un disegno caratteristico e l’inferiore concava col bordo tagliente, o taggiapasta, per ricavare le rondelle di pasta dalla sfoglia. L’elemento superiore a forma di timbro con un’impugnatura e la faccia piana “timbrante” intagliata con un motivo analogo a quello dell’elemento cilindrico: i due elementi formano l’inscindibile coppia dello stampo, a stampa da corzetti, strumento per tagliare le rondelle e imprimerle col doppio ‘rabesco’, un disegno “arabesco”. I due tondi intagliati presentavano linee continue, tacche, corrosioni e rilievi vari disposti in un disegno decorativo, anche floreale, ma, “trasferito” sulla pasta, funzionale a trattenervi il condimento. Ogni tondello tagliato era, infatti, pressato tra le due superfici piatte di legno intagliate e i rilievi e le depressioni venivano così trasferiti su entrambe le facce del corzetto. Questa pasta corta/tonda semifresca, veniva poi posta, coperta di carta straccia, ad asciugare per qualche giorno prima della cottura. Il condimento variava secondo i gusti: dal semplice burro e maggiorana (bitiro e persa), al sugo di carne alla ligure ricavato dallo stracotto bovino (tocco de rosto), al sugo di funghi (sûgo de funzi), alle salse (non “sugo” come si sente dire) di noci (sarsa de noxi) o (di rado, visto il maggior costo) di pinoli (sarsa de pigneu). Di norma, sia a Chiavari che a Genova, non li si condiva con nessun pestariçço, né col “battuto d’aglio” e, tantomeno, col pesto di basilico oggi predominante.
A Genova è possibile che, almeno nell’Ottocento, declinando la preparazione dei corzetti, se ne imprimesse solo un lato con un attrezzo semplificato di cui solo la parte superiore era incisa e l’inferiore fungeva solo da tagliapasta: ciò emerge dalla descrizione del 1841 dell’Olivieri. Quella della Cuciniera del 1893 dei Ratto “padre e figlio” è ormai incomprensibile per i grossi errori: forse in quell’epoca non avevano mai visto una vera stampa da descrivere?
Scrissero i Ratto: Tirate le sfoglie alla stessa maniera delle lasagne, poscia invece di tagliarle col coltello in forma quadrata, servitevi di una forma di legno tondo, nel cui incavo vi è un arabesco (che è invece sul lato piano opposto dell’elemento e l’incavo è liscio) e all’intorno un orlo acconcio a tagliarli (e non fanno alcun cenno all’elemento superiore e complementare intagliato). Cuoceteli e conditeli suolo per suolo come le lasagne.
Ogni famiglia aveva i suoi stampi, ma è una sciocchezza da turisti affermare che li si personalizzasse con iniziali, stemmi nobiliari o simboli vari. La tradizione rivierasca, peraltro aliena dall’esibizionismo, era invece attenta agli aspetti pratici.
Non è neppur vero che le decorazioni degli stampi si rifacessero ad antichi marchi per il pane quotidiano di cui, a differenza ad esempio della vecchia Matera, in Liguria non c’è alcuna tradizione. Unica eccezione e figassette delle Confraternite con le quali c’è solo il comune utilizzo di uno stampo ligneo: ne parleremo in una nota in appendice.
Altra invenzione è che nei matrimoni si usassero stampi con le iniziali degli sposi e che si intagliassero simboli beneauguranti tipo “spighe” o “alberi della vita”, assenti nella nostra tradizione. Inesistente anche la presenza di “croci”, recentemente asserita a convalidare una pseudoetimologia della forma moderna croxetti che, deformazione o francesismo spurio che sia, non ha, come già chiarito, alcun nesso eucaristico o numismatico.
Visto il preciso scopo gastronomico degli intagli, non risulta che qualche patrizio genovese trovasse conveniente far “condire” il proprio blasone dai suoi cuochi: la pasta oltretutto era considerato cibo grossus, assente negli splendidi banchetti dei ricchi. Di stampi di questo tipo non c’è traccia se non nella fantasia di “divulgatori” forse fuorviati da analogie con i sigilli per ceralacca, realizzati in vari materiali tra cui anche il legno.
Quando, a fine Ottocento, la nonna materna monegliese di chi scrive emigrò, con un lungo viaggio a vela, in Cile, aveva in valigia, con la già citata Cûxinëa ed. 1893, le vecchie stampe da corzetti di famiglia. Anch’esse, che decenni dopo tornarono in Liguria in piroscafo, presentano, come tutti quelle antiche disponibili, solo la tipologia di intagli descritti. Solo gli stampi intagliati a partire dagli ultimi decenni del Novecento, dopo una parentesi di oblio, con la riscoperta di questa e altre vecchie tradizioni diventate “curiosità etniche”, offrono una varia gamma di soggetti, legati alla fantasia dell’artigiano, più colto di un tempo e disponibile a compiacere le richieste del cliente.
Queste sono ben diverse da quelle della casalinga de ‘na votta, che non esibiva e stampe pe i corzetti, ma ne faceva uso. Si continua peraltro, giustamente, a prestare attenzione al legno usato per lo stampo, che, essendo per uso alimentare, deve essere privo di tannino: il più usato è il faggio, il più comune in tutta l’utensileria lignea da cucina, idonei il pero, il melo e anche altri.
Una nota curiosa: il diametro degli stampi per i corzetti è andato diminuendo, negli ultimi 150 anni, di pari passo con il calo del loro uso: dai 7 cm degli stampi del 1860 si è scesi ai 5,5 del 1960 e ai 5 netti di quelli fabbricati, dopo alcuni anni di vuoto di produzione, ai nostri giorni.
È peraltro curioso che per le lasagne si sia verificato il contrario: dalla misura di 4×4 cm in uso nell’Ottocento si è passati alla misura di 10-12 cm di lato delle lasagne odierne.
Analoghi a i corzetti stampæ liguri sono quelli di Novi Ligure, tradizionalmente vicina alla cucina del Genovesato, dove, da tempi relativamente recenti, si usa abbinarli al pesto di basilico. Anch’essi tondi e stampigliati, sono di solito verdi per l’aggiunta di borragine all’impasto.
Simili sono i crozetti diffusi nell’Alto Piacentino (e di lì transitati nella Val d’Aveto) realizzati con un particolare stampo ligneo e infine la versione emiliana, realizzata nell’Appennino di Parma con un ferro speciale consistente in due piattini (decorati all’interno) che si chiudono a cesoia.
Sono là abitualmente conditi con ragù di carne o con burro fuso profumato con maggiorana fresca, a persa, anche se oltre i monti qualcuno sostituisce ormai quest’ultima con la salvia.
Per finire va rilevato come tutti i condimenti di antica tradizione, via via accennati, dei corzetti, siano tutti “bianchi”, cioè senza la presenza del pomodoro, introdotto solo nell’Ottocento in Sicilia e giunto nelle cucine dell’Italia settentrionale nella seconda metà del secolo. Fino alla fine del Settecento fu considerato un frutto insignificante o addirittura nocivo.
Appendice
E figassette stampæ, le focaccette stampate dei Santi delle Confraternite
Era antica tradizione delle Confraternite liguri distribuire presso i loro oratori, in occasione della festività del Santo Titolare, tonde figassette, focaccette benedette con la sua immagine. Esse erano realizzate con l’utilizzo di appositi stampi lignei da cui si trasferiva l’immagine del santo patrono, intagliata nel legno della faccia piatta inferiore, premendo quest’ultima sull’impasto delle focacce prima di infornarle. Tali stampi erano una sorta di grandi “timbri a secco” analoghi alla metà col manico della coppia utilizzata per i corzetti stampæ, ma di diametro almeno doppio, sui 12/15 cm circa.
Se ne conservano diversi esemplari, talora ancora utilizzati, in vari oratori liguri, sant’Antonio abate di Mele, santo Stefano di Borzoli, san Giacomo di Pino, san Nicolò di Sant’Ilario. Il più antico che si conosca, in discreto stato di conservazione nonostante le tarlature, è quello recante l’effige di sant’Antonio Abate (raffigurato con il tipico “fuoco”) dell’omonimo oratorio di Casella: i documenti del suo archivio provano che lo stampo è settecentesco.
Nella Riviera di Levante l’usanza sopravvive a san Rocco di Zerli in val Graveglia, dove in agosto sono distribuite e fûgasse/figasse che recano impressa l’immagine di quel santo, il cui culto si affermò ai tempi delle antiche pestilenze, e del suo cagnolino.