L’ultima frontiera dei maccheroni: la pasta nello spazio

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La dieta dell’astronauta

Beef Strogonoff, broccoli al gratin, budino di cioccolata: sembra il menù di un gran ristorante ed è invece una delle varianti previste dalla dieta astronautica degli uomini dello shuttle. Il cibo spaziale, in realtà deve possedere requisiti ben determinati, dovuti sia alle condizioni ambientali, come la mancanza di gravità, che a considerazioni psicologiche, culturali e religiose, dettate dalle preferenze del personale di bordo.

È stata proprio la mancanza di gravità a condizionare dai tempi del primo volo fino ad oggi la forma e il modo in cui i cibi venivano conservati e poi consumati dagli astronauti.

Per anni uova strapazzate e insalate di fagiolini, riso pilaf e cavolfiore in salsa besciamel venivano schizzati da tubetti metallici, simili a quelli dei dentifrici direttamente nella bocca da Yuri Gagarin e John Glenn.

Ma la durata e complessità sempre crescente dei voli successivi ha spinto la Nasa ad elaborare nuovi sistemi per nutrirsi e anche nuovi menù. Il cibo a bordo dell’Apollo 11, ad esempio, la missione che nel 1969 portò l’uomo sulla Luna, era degno di un gourmet in confronto a quello offerto nei viaggi precedenti. Gli astronauti dell’Apollo avevano a disposizione settanta piatti diversi e, per la prima volta nello spazio, anche la possibilità di usare scodelle e cucchiai.

Nelle tre missioni dello Skylab gli astronauti ritrovarono anche la consolante abitudine della sostanziosa prima colazione americana: uova strapazzate e salsicce con cornflakes e succo d’arancia, il tutto da consumare intorno a un tavolo con piatti e posate debitamente magnetizzati per evitare che svolazzassero per l’astronave.

La ricerca di nuovi sistemi per contenere e consumare cibo e bevande durante i voli spaziali, ha dato frutti anche nell’industria terrestre: l’apertura delle lattine di birra ad esempio, è uno dei sistemi che erano stati studiati per gli astronauti.

Con i voli dello Shuttle la cucina spaziale ha raggiunto un livello di sofisticazione ancora maggiore. Una dieta interplanetaria, per voli che durano mesi, non deve ripetere le stesse pietanze più di una volta ogni due settimane.

Il morale degli astronauti, come quello di gran parte delle persone, dipende molto dal cibo. Uno dei criteri più importanti è appunto la varietà. A bordo dello Shuttle si possono gustare più di ottanta piatti diversi, con sette tipi di condimenti e venti bevande, tutte analcoliche. Un menu tipico offre a pranzo spaghetti al sugo di pollo, pomodori al forno, polpette in agrodolce, e pere e mandorle per frutta. Per cena invece, c’è la pasta ai quattro formaggi, tonno con piselli al burro, pesche e budino al cioccolato. I cibi spaziali naturalmente devono poter essere conservati a lungo, nel minor spazio possibile. Per questa ragione vengono congelati, oppure disidratati e poi reidratati al momento di essere serviti. La cucina dello Shuttle è capace di preparare un pranzo per sette persone in circa venti minuti, regolando anche la temperatura alla quale i cibi vengono serviti.

Come si mangia male sullo spazio!

“Non si può mangiare ogni giorno la stessa pappa liofilizzata”. L’astronauta spagnolo Pedro Duque, nel corso di un convegno a Madrid all’Università Complutense ha reclamato non solo un miglioramento ma anche un aumento della varietà dei cibi che vengono forniti agli astronauti nello spazio. “A bordo della stazione spaziale – ha detto Duque – il menù è davvero elementare”. “Se vogliamo affrontare viaggi spaziali lunghi verso la Luna o verso Marte bisogna assolutamente migliorare la qualità del cibo a bordo”.

Nel corso del suo intervento all’Università di Madrid, l’astronauta spagnolo dell’ESA (Agenzia Spaziale Europea) non ha mancato di spiegare i motivi del suo disappunto. “Diversificare il cibo degli astronauti permetterebbe di sentirci più legati alla Terra e consapevoli di quello che stiamo facendo”, per cui l’invito rivolto ai ricercatori è quello di “affinare la punta della matita e trovare al più presto delle soluzioni valide per risolvere questo problema”.

Soluzioni che sembrano essere però difficili da trovare, perché il cibo che viene portato in orbita deve corrispondere a una serie stringente di requisiti.

In primo luogo deve essere il più leggero possibile e occupare il minor spazio necessario. Portare sulla stazione spaziale un chilo in più di materiale costa infatti più di 20.000 dollari.

In secondo luogo i cibi devono essere assolutamente sterili per evitare di trasmettere infezioni (gastroenteriti) e pregiudicare così l’esito della missione.

Fino a oggi la dieta degli astronauti si basa su una serie di alimenti disidrati integrata da poche scatolette di cibo tradizionali opportunamente trattati e frutta e verdura per il consumo immediato. Ma a far spingere fin quasi allo sfogo l’astronauta spagnolo è anche il fatto che questi alimenti sono per la maggior parte forniti dall’industria alimentare americana e russa. La speranza degli astronauti europei e anche di quelli giapponesi è che vengano inseriti anche alimenti di origine europea e nipponica. Insomma nello spazio anche un po’ di sushi e di pasta non farebbe male. “Mangiare bene – ha spiegato Duque – ti dà la sensazione di essere legato alla realtà”.

Per risolvere i problemi tecnici legati al cibo nello spazio esiste un vero e proprio programma di ricerca finanziato dall’ESA, denominato ‘Melissa’, coordinato dai ricercatori dell’Università autonoma di Barcellona, in Spagna.

“La Nasa – ha spiegato il direttore del ‘Food technology commercial space center’ (FTCSC) della Nasa, Anthony Pometto – punta a fare in modo che il novanta per cento degli alimenti destinati agli astronauti sia prodotto in loco e cioè sia coltivato direttamente dagli stessi astronauti”.

Ma le lamentele dell’astronauta spagnolo non possono non far tornare alla mente la missione spaziale che ha avuto come protagonista l’astronauta italiano Roberto Vittori (1964-) che il 15 aprile 2015 è partito per la missione spaziale “Eneide” portando con sé un bel campionario di gastronomia tradizionale del Lazio con tanto di olio extravergine di oliva di Canino e mozzarelle di bufala di Latina.

La pasta Barilla arriva nel menù degli astronauti

È proprio vero: “dove c’è Barilla c’è casa”, anche nella Stazione Spaziale Internazionale (ISS – International Space Station). La pasta Barilla, che da sempre ricorda agli italiani il calore di casa ovunque nel mondo, infatti, ha conquistato anche lo spazio, per la prova d’assaggio più estrema di sempre. C’erano infatti circa 3 kg di fusilli Barilla nella capsula spaziale che, nel gennaio 2024, ha portato in orbita – per circa due settimane – a bordo della ISS l’equipaggio della missione Ax-3, con a bordo il Colonnello dell’Aeronautica Militare italiana Walter Villadei (1974-).

Nel corso della missione, Barilla ha coinvolto alcuni membri dell’equipaggio nello svolgimento di esperimenti sensoriali, per meglio comprendere i bisogni legati all’alimentazione degli astronauti in condizioni estreme. In assenza di gravità, infatti, l’esperienza del cibo e la percezione dei sapori sono molto diversi. Barilla vuole “sfidare” questo ambiente unico con la sua pasta, un prodotto alimentare tradizionale e al contempo innovativo, pratico, dall’elevato valore nutrizionale ed energetico. E, soprattutto, buono e amato da tutti. In altre parole, il candidato ideale per esplorare e progettare il futuro del cibo.

“Produciamo pasta da più di 140 anni, è un prodotto che ha radici in un passato molto lontano ed è un emblema della cucina italiana nel mondo. Essere parte di questa missione spaziale ci riempie d’orgoglio e ci permette di esplorare una nuova frontiera dell’alimentazione dando agli astronauti la sensazione di sentirsi un po’ a casa” – è stato il commento di Paolo Barilla, Vicepresidente dell’omonimo Gruppo.

I fusilli “spaziali”: nutrimento e gusto in orbita

Gli astronauti preparano e consumano cibo come tutti noi, ma l’ambiente in cui compiono queste operazioni in assenza di gravità è tale per cui una routine quotidiana “terrestre” si trasforma in una sfida tecnologica di grande portata. Attività quotidiane, che sulla Terra potremmo dare per scontate, nello spazio diventano vere e proprie missioni che richiedono una pianificazione e una preparazione meticolose. Spesso la preparazione del cibo comporta, non tanto la cottura, quanto piuttosto la reidratazione o il riscaldamento di prodotti già pronti all’uso nei dispositivi presenti presso la stazione spaziale. Anche la pasta si deve adattare a queste necessità. Bollire la pasta in microgravità non è infatti possibile. Per questo, la pasta che Barilla ha inviato nello spazio è già cotta e pronta per essere riscaldata e gustata. Il team Ricerca e Sviluppo di Barilla ha lavorato per garantire che la ricetta, nella sua semplicità – pasta, olio extravergine di oliva, sale marino – rappresenti l’esperienza di bontà italiana e garantisca la tenuta al dente fin da prima del countdown.

“Grazie alla nostra tradizione ed esperienza nell’arte pastaria e alla grande passione per la qualità e l’innovazione, siamo riusciti a realizzare un fusillo che possa essere precotto e stabilizzato senza perdere il buono che da sempre portiamo nelle tavole di tutto il mondo. Il processo è stato messo a punto con cura per garantire che la pasta rimanga consistente e opponga quella piacevole resistenza al morso, che in tutto il mondo rappresenta l’apice dell’esperienza di un buon piatto di pasta. Il prodotto è stato trattato unicamente con il calore, in modo che possa essere sicuro anche conservandolo a lungo a temperatura ambiente, senza l’aggiunta di conservanti o additivi. La nostra pasta condita con olio extravergine di oliva e sale marino è il prodotto più vicino alla tradizione che oggi possiamo portare nello spazio. Per dare nutrimento e piacere agli astronauti italiani e di tutto il mondo.” – spiega Cristina Gallina, Global Discovery Center Director Barilla.

L’iniziativa è nata dalla collaborazione tra Barilla e il Ministero dell’Agricoltura, l’Aeronautica Militare e Axiom Space per sostenere la candidatura della cucina italiana a Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità UNESCO e si ripromette di aprire nuovi orizzonti per il consumo della pasta nel futuro.