«Nonostante ciò che talora sembrano credere – scrive Marc Bloch – i principianti, i documenti non saltan fuori, qui o là, per effetto di chissà quale imperscrutabile volere degli dei. La loro presenza o la loro assenza, in un fondo archivistico, in una biblioteca, in un terreno, dipendono da cause umane che non sfuggono affatto all’analisi, e i problemi posti sulla loro trasmissione, nonché non essere soltanto esercizi per tecnici, toccano essi stessi nell’intimo la vita del passato, perché ciò che si trova così messo in gioco è nientemeno che il passaggio del ricordo attraverso le successive generazioni» [1]. Eppure, come in questo caso l’intrinseca leggibilità di processi di formazione e di conservazione, anche secolari, possono essere d’un colpo vanificati dal caso, dall’imponderabile, per cui un frammento, un documento, un brandello del passato emerge con una propria forza, un’imperiosità tale da richiedere di essere letto, considerato, studiato, da divenire indicatore di una rotta non battuta prima.
Così è stato per questi due campioni di pasta secca databili, il più antico, diviso in due cartocci di grezza carta colorata da droghiere o da minuta, al 1837, ed il più recente all’anno successivo, che con la loro evidenza fisica contrastano con una imponente massa documentaria cartacea. Anomalia ed insieme conferma e riaffermazione del valore dei documenti scritti.
Il ritrovamento è avvenuto infatti durante i lavori di ricognizione e riordinamento del fondo Presidenza poi Dipartimento delle Finanze, quando si è aperta la busta 1295, descritta dal vecchio inventario di queste carte come Segreteria Generale. Casa di Forza 1838 [2]. Fra altri fascicoli uno relativo alla Impresa Generale delle Prigioni dello Stato e Deposito di Mendicità di proprietà di Vincenzo Marinelli: al suo interno erano in sacchetti a busta, ancora con i segni dei sigilli rossi di ceralacca, i campioni di pasta, rinsecchiti dal tempo, commoventi nella loro lieve fragilità senza peso, nella tenue patina verde, ossidazione dei più di centocinquantanni che ci separano, eppure concreti, ineludibili testimonianze di una antica quotidianità. Un’allieva di Michel Foucault, Arlette Farge, ha scritto dell’archivio come irruzione, cioè come «attacco, incursione, entrata violenta ed inattesa invasione» del passato nella nostra dimensione temporale. Per cui è proprio ciò «che emerge, deborda e supera, è capriccio, boutade, tragedia. Esso non avalla, non riassume, non appiana alcunché, specie quando si tratta di conflitti e di tensioni, ma rende ispido il reale con i suoi salti inopportuni, dei quali lo storico deve a volte tesser il senso, la ragione e i rapporti di forza» [3]. Questi campioni di pasta secca irrompono con estrema energia nel nostro presente nel quale, altra combinazione, forse solo apparente, l’industria agroalimentare è trainante per il sistema Parma e nell’immagine internazionale del nostro territorio con un’industria come la Barilla, che riassume e rappresenta oggi un’antica tradizione di pastifici, per cui un lontano evento che ha permesso che questi cartocci si depositassero tra le carte, vi si nascondessero, riemerge ora in un tessuto che è rappresentativo della più importante realtà nazionale del settore, contraddicendo ancora una volta, seppur come eccezione, l’idea di Bloch. Anche perché questi mucchietti richiamano violentemente l’attenzione sui luoghi della pena, sul carcere, sulle case di lavoro e di forza, sulla mendicità randagia, inseguita, catturata, segregata, sulla salute e sulla malattia, sulla normalità e sulla devianza, temi che ci ossessionano ancor oggi, di fatto ignorati dalla storiografia parmigiana e dagli studi sulla Parma della Restaurazione. E non si può non ripensare all’avvertimento di Michel Foucault che quei luoghi di emarginazione ha studiato più volte: «Il documento non è il felice strumento di una storia che sia in sé stessa e a pieno diritto memoria: la storia è un certo modo che una società ha di dare statuto ed elaborazione a una massa documentaria di cui non si separa» [4].
E l’archivio, specialmente uno di concentrazione o generale com’è un Archivio di Stato, è un luogo della sedimentazione, processo che avviene sia all’interno dei singoli fondi, nella quotidianità della azione amministrativa e di attestazione giuridica proprie dell’ufficio che producono i documenti, sia rispetto ad un’aggregazione che è proprio l’accumularsi sociale della memoria di cui scrive Foucault, che è anche occultamento e non solo salvaguardia. Filippo Valenti, per primo ha sottolineato questo carattere dell’archivio/sedimento, confrontabile con la stratificazione archeologica, dove questo storicizzarsi è determinato dalle situazioni complesse di uso/non uso/ riuso, conservazione/distruzione o dispersione; ordine originario/riordino/ sconvolgimento dell’ordine. Ognuna di queste situazioni è significativa, è fondamentale poiché si inserisce in una maglia, in una griglia che corrisponde ad una volontà precisa dell’ente produttore di intervenire sulla costruzione della propria memoria – autodocumentazione producendo ora sconnessioni, black-out, smagliature o restaurazioni che nascondono occultamenti ed dimenticanze, crisi e crasi [5]. E’ in questo contesto che si trovano nei fondi oggetti o presenze che esulano dal concetto classico dell’archivio come universitas rerum, come insieme di memoria scritta da parte di un ente produttore per finalità pratiche, amministrative e giuridiche, legate da un vincolo che si chiama archivistico o storico, e che con il tempo, perdendo le originarie finalità, acquisisce quelle culturali, diventa base e riserva della storia. Dalla distrazione individuale si trovano così negli archivi, tra le carte, oggetti dimenticati, ma anche, come in questo caso, prove che possono avere valore giuridico, corpi di reato antichi, senza voler tener conto della cultura materiale che spesso emerge nelle pratiche della conservazione dei documenti archivistici, dalla filza, alle rilegature di registri, indici e mastri, a segnapagine, a contenitori di documenti particolari, preziosi o comunque originali e creativi anche nella povertà dei mezzi e delle materie. E’ una marginalità archivistica affascinante, in gran parte da scoprire. In alcuni casi come le pergamene in ebraico o i frammenti di codici liturgici, letterari o giuridici riutilizzati in successive rilegature per documenti che richiedevano protezione ma non particolari eleganze, la ricerca ed il recupero è già ampiamente iniziato [6]. Nasce un interesse tutto particolare per questi segni, per la sopravvivenza di queste tracce, che si estende agli scarabocchi, alla scrittura automatica, agli interventi privati, occasionali e marginali [7].
La funzione dell’Archivio, la sua sottile trama di relazioni e di rapporti emerge appena si cercano di ricostruire, come in seguito si farà, gli episodi che hanno portato a custodire i campioni di pasta inseriti tra le carte, la storia delle istituzioni coinvolte, i personaggi e le loro vicende: operazioni tipiche dell’archivista e del ricercatore, di chi controlla ed ordina le carte e di chi le consulta. L’archivio recupera così la sua natura necessitante, fuori dalla volubilità del caso, il suo valore metalinguistico, nato per esprimere operatività, diventa fonte di ricostruzione di quel passato di cui è traccia, ma marginale e simbolica condizionata dalla scrittura.
Il caso fortuito si è voluto, grazie a disponibili compagni di strada come l’Università degli Studi, Dipartimento di Fisica, e la Barilla, spingerlo oltre, fino a sottoporre i campioni di pasta all’analisi delle più sofisticate ed aggiornate tecnologie, in un rapporto di tempi, che moltiplica in realtà solo le domande dello storico, che si ripiegano così di nuovo in ulteriori ricerche sui documenti. Dando così un senso al nostro lavoro di archivisti.
Era la mattina di martedì 30 gennaio 1838, il commesso della ditta di Vincenzo Marinelli, come tutti i giorni, consegnava un quantitativo di pasta alla dispensa dell’istituto penitenziario, ma quel giorno l’economo ed il direttore del carcere si rifiutavano di accettare la fornitura, perché a loro dire la qualità della pasta che doveva essere servita ai carcerati «sani» non era di qualità corrispondente a quella descritta negli accordi che regolavano l’appalto delle forniture. Lo stesso giorno il direttore Giulio Cesare Verdelli dava comunicazione dell’accaduto al presidente del Consiglio di Vigilanza della Casa di Forza e di Correzione Giulio Zileri inviandogli una nota alla quale allegava «una mostra della pasta» che Marinelli aveva consegnato il 25 gennaio dell’anno precedente «per servire di norma dell’Amministrazione per la qualità di quella da somministrarsi a detenuti sani» e «una mostra della pasta rifiutata» [8]. Il direttore agiva a norma dell’articolo 7 del Quaderno delle condizioni relative al contratto delle somministrazioni alle carceri dello Stato e al Deposito di Mendicità, che gli imponeva di compilare «una relazione del rifiuto, e questa e le cose rifiutate sottoporrà alla Deliberazione del Consiglio di Vigilanza» [9].
Lo stesso contratto chiariva, nel capitolo relativo alle «Condizioni particolari», quale dovesse essere la qualità delle paste da fornire: «art. 28 Le paste pe’ sani saranno fatte di farina di frumento detta Mezzana, senza mistura alcuna né di cruschetto, o tritello, né di crusca. art. 29 Le paste pe’ malati saranno di puro fiore di farina di frumento, senza parte veruna di fuscello, cruschello, o crusca. art. 30 Le paste sì da sano che da malato non avranno né odore né sapore spiacente, e saran sempre al tutto secche» [10]. Il giorno successivo il rifiuto, anche l’imprenditore Marinelli si rivolgeva al Consiglio di Vigilanza, dando la propria versione dei fatti; dopo aver sostenuto la buona qualità del prodotto somministrato, egli invitava il Consiglio a giudicare, con la collaborazione di «varj ed esperti periti», solo se la pasta fosse conforme alle clausole del contratto e non, come pretendeva il Verdelli, se essa fosse «simile ad un campione, che fu suggellato, e rimesso al medesimo [direttore] in occasione del contratto fatto col pastaio Casalini, il quale campione fu convenuto tra me ed il Casalini di qualità superiore al mio obbligo appunto per non avere disturbi, anche se talvolta il Casalini somministrasse pasta inferiore a quella del campione suggellato» [11]. In brevissimo tempo, il sabato 3 febbraio successivo, il Consiglio di Vigilanza, composto dal Podestà di Parma Giulio Zileri (presidente), dal Procuratore Ducale Giuseppe Guadagnini, da Senesio Del Bono, da Pietro Benassi e da Giuseppe Didier, si riuniva per prendere in esame il caso e deliberava di interpellare tre periti esperti in materia e di aggiornarsi al lunedì 5 per prendere una decisione «in piena cognizione di causa» [12]. Nella seduta successiva veniva presa in esame la perizia degli esperti, tutti e tre produttori e venditori di pasta [13], la quale evidenziava: 1° che il campione consegnato nel gennaio 1837 era conforme all’articolo 28 del contratto «sì per ciò che risguarda alla qualità della farina, come al modo nel quale è stata lavorata»; 2° che il campione di pasta rifiutata la settimana precedente era «di farina un poco inferiore a quella della prima per difetto di macinazione» e che inoltre non era stata «ben lavorata, conoscendosi che fu fatta con un insufficiente calore, allorquando era nel torchio, dal che è derivato che la stessa è ruvida e nel cuocerla si scioglie più facilmente, e riesce meno gradevole al palato» [14]. A seguito di queste dichiarazioni il Consiglio deliberava di approvare l’operato del direttore Verdelli e imponeva all’imprenditore Marinelli di somministrare alla Casa di Forza pasta della medesima qualità di quella depositata a titolo di campione nel gennaio 1837. Il Consiglio disponeva inoltre di ricomporre gli «involti» di pasta e di inviarli insieme all’atto deliberativo alla Presidenza delle Finanze, cosa che veniva puntualmente eseguita il 12 febbraio [15].
Così, a causa del rifiuto della somministrazione e del procedimento amministrativo che ne seguì, questi campioni di pasta sono arrivati fino a noi.
Il sistema carcerario nel ducato parmense, negli anni della Restaurazione, è intimamente collegato a quello del deposito di mendicità e delle case di lavoro. Queste istituzioni derivano il proprio ordinamento da leggi e da strutture che persistono dal periodo francese. Nel 1810 le prigioni di Parma, sede amministrativa del Dipartimento del taro, sono dislocate in vari punti della città: c’è una Casa di Arresto alla Piazza, dove sono riunite anche le prigioni di Polizia; le carceri criminali sono poste alla Rocchetta e al Rosario; il bagno penale ai Mulini Bassi, cioè fuori porta S. Barnaba, dove è impiantata una fabbrica di panni in cui venivano impiegati i forzati; la Casa di Reclusione a S. Francesco, dove l’anno seguente verrà stabilita anche la prigione militare.
Mistrali nel suo progetto di nuovo ordinamento del Ducato, assillato in particolare dai problemi finanziari, suggerisce di unificare il bagno e la Casa di Detenzione, il cui regolamento, approvato il 4 novembre 1814 e non pubblicato nella Raccolta Generale delle Leggi, risulta tuttora irreperibile nelle carte d’archivio, e di accollare le spese delle prigioni ai comuni. L’unificazione del sistema carcerario entrerà in vigore nel 1815.
Il Regolamento intorno alla Polizia Amministrativa del 14 agosto 1815 n. 80 all’art. 23 [16] determina il controllo delle prigioni tra i compiti della Polizia; il 30 giugno 1817 la Casa Centrale di Detenzione entra a far parte delle attribuzione della Presidenza dell’Interno. Nel decreto del 20 aprile 1821 si stabilisce, più precisamente, che la Polizia della Casa e la custodia dei carcerati sono di competenza della Presidenza dell’Interno mentre l’amministrazione economica ricade sulla Presidenza delle Finanze. Con decreto dell’8 gennaio 1831 la Polizia della Casa passa al direttore della Giustizia, l’amministrazione all’Interno; il 9 giugno dello stesso anno viene ripristinata la situazione secondo i dettami del decreto del 1821. Il decreto n. 329 del 5 dicembre 1846 sostituisce le due Presidenze, dell’Interno e delle Finanze, con tre distinti Dipartimenti: Grazia, Giustizia e Buongoverno, Interno e Finanze. Le carceri diventano competenza del primo: all’art. 2, comma 7 è citata «la Polizia delle prigioni, delle case di custodia, di forza e di correzione, e del Deposito Mendicanti»; l’amministrazione economica viene mantenuta dal nuovo Dipartimento delle Finanze.
Le “tariffe del vitto, tanto pei sani che pei malati, e delle legna e dei lumi pei diversi quartieri e per gli ospedali” sono fissate il 26 ottobre 1816 dal direttore Ferdinando Dupré ed approvate nel «Riordinamento della Casa di Centrale di Detenzione» il 12 ottobre 1818. Il decreto prevede per la cucina ogni giorno 98,4 chili (12 pesi) di legna, nel periodo dall’11 marzo al 15 novembre, aumentati a 123 (15 pesi) nel periodo 16 novembre – 10 marzo. Sei sono le fascine concesse quotidianamente, 3 i mazzi di zolfanelli.
Per il vitto dei detenuti si prevedono dosi in pratica identiche a quelle stabilite per il Deposito di Mendicità: per i sani 650 grammi di pane di frumento (libbre 2), 136 grammi di pasta o riso (5 once), 11 grammi di lardo, o in sostituzione testa o piede di bue, qualora sia conveniente dal punto di vista economico, 11 grammi di sale (10 denari) ed infine 9 grammi di olio (8 denari); per i malati il trattamento è analogo a quello dei ricoverati del Deposito non sani che consiste in 410 grammi di pane, 136 grammi di pasta o riso, 191 grammi di carne cruda (7 once), 11 grammi di sale e un litro di vino. Ai detenuti sotto i sei anni e a quelli tra i sei e i dodici anni viene assegnato un quantitativo inferiore sia di pane sia di pasta o riso. Evidentemente anche i bambini erano rinchiusi nelle carceri parmensi. Il regolamento prevede una casistica dettagliata delle diete per i malati: «Alla dieta ordinaria si daranno quattro brodi; entro a ciascuno un’oncia di pan grattato. Il vino come per la dieta rigorosa. Tutti gli altri gradi di dietetica avranno ogni giorno 4, 3, o 2 volte una porzione intera di minestra; il 4° non avrà carne». Nelle diete la carne può essere sostituita da due uova; i medici, infine, possono prescrivere una quantità di cibo minore e mai maggiore di quanto stabilito dal regolamento [17].
I condannati che erano ammessi al lavoro, quindi non i forzati, hanno la possibilità con i proventi della loro opera di migliorare il vitto [18].
Il controllo sulle carceri è effettuato dal Consiglio di Vigilanza, organismo che deriva da leggi emanate già alla fine del ‘700, riprese in epoca francese e mantenute anche nella Restaurazione [19].
Il Consiglio di Vigilanza, che esiste anche nelle prigioni minori ma con un numero inferiore di membri, è presieduto dal podestà ed è composto dal procuratore ducale, da tre membri, che diverranno cinque, e da un segretario, l’unico che percepisce una retribuzione. Deve controllare la condizione dei locali, i registri, la legalità delle detenzioni e scarcerazioni, il numero dei reclusi, il vitto, l’alloggio, la disciplina, il comportamento del personale, la sicurezza delle carceri, i reclami dei prigionieri, quindi fare rilievi in proposito. Si riunisce per stabilire le pena da comminarsi ai reclusi colpevoli di tentate evasioni, violenze od altri reati commessi all’interno della prigione e delibera a maggioranza su richiesta del Direttore dell’istituto di pena sulle punizioni da infliggere. I membri sono nominati con decreti ducali e scelti tra terne proposte dalla Segreteria competente. I requisiti richiesti sono: reputazione di moralità, estrazione sociale, stato di famiglia, età e soprattutto censo. E’ indispensabile infatti che il designato non abbia problemi finanziari, in quanto quotidianamente devono essere svolti i controlli sull’andamento dell’istituto. I prescelti sono di solito nobili, professionisti o religiosi che dimostrano spesso scarsa disponibilità, poca frequenza ed assiduità: durante le riunioni manca spesso il numero legale.
Strettamente legato al problema degli istituti di pena è quello dei poveri e della mendicità, ritenuta, fin dai tempi del dominio napoleonico, una vera piaga sociale, tanto da fondare, nel 1809, a Borgo San Donnino, nei terreni appartenuti ai Gesuiti e alle Orsoline, ingranditi con alcuni possedimenti adiacenti, il Deposito di Mendicità, diretto da Stefano Sanvitale, con lo scopo di impiegare oziosi e disoccupati in attività artigianali legate alla produzione di beni di largo consumo. Soppresso con la Restaurazione viene riaperto nel 1816 [20].
Le spese di riapertura ammontano a 165.000 franchi, così ripartiti: il debito arretrato delle corporazioni religiose verso l’antico Deposito di 357.335,62 franchi viene ridotto a soli 60.000 da versare però interamente; le città di Parma e Piacenza contribuiscono con 20.000 franchi ciascuna; figurano all’attivo eccedenze per crediti per 4.298,84 franchi; la quota proveniente dal decimo di beneficenza è di 20.000 franchi ed infine il Tesoro ne versa 20.701,16.
Il decreto stabilisce il divieto di questuare – il nuovo codice penale del 1820 punirà il reato con tre mesi di reclusione – e l’obbligo per gli accattoni a presentarsi per un lavoro. In caso contrario dopo l’arresto saranno tradotti alle sale di lavoro. Nel caso in cui dovessero poi sottrarsi a quest’obbligo saranno rinchiusi nel Deposito di Mendicità, che ha quindi un carattere «reclusorio». Oltre ai mendicanti possono accedere al Deposito anche bambini e giovani abbandonati o appartenenti a famiglie che non possono occuparsi di loro, dietro versamento di una quota convenuta, se non vi sia indigenza assoluta e comprovata; non mancano infine invalidi e vecchi privi di mezzi. Come le carceri il Deposito impiega gli ospiti sani in lavori di carattere artigianale, che consentono a chi li svolge un trattamento migliore. Similmente alle prigioni sono in vigore regolamenti rigidi con divieti e sanzioni anche pesanti per chi trasgredisce. Vi sono tuttavia delle differenze. Chi dimostra di aver trovato un lavoro sicuro, o chi può essere mantenuto dai parenti viene dimesso e dal 1819 [21] esiste una sezione che impartisce ai reclusi un’istruzione elementare. Funziona, come per le carceri, un Consiglio gratuito di Vigilanza che deve controllare l’andamento dell’ente e la corretta applicazione delle norme, composto dal pretore e da tre membri, che in seguito saranno portati a cinque. Al vertice dell’ente di mendicità è posto un direttore e amministratore, che percepisce 3.000 franchi annui, sullo stesso piano quindi dei direttori di Polizia e delle carceri.
L’art. 4 del decreto istitutivo stabilisce che «il prodotto del lavoro dei mendicanti andrà per 2/3 a benefizio loro, di che 1/3 perché possano migliorare se vogliono il proprio regime alimentario, o provvedere ad altri giornalieri bisogni, ed 1/3 per formare una borsa che sarà loro consegnata allorché usciranno dal Deposito; il terzo rimanente starà a profitto della Casa, onde diminuire le spese cui dà luogo il suo mantenimento». In caso di morte, a differenza dei carcerati, le somme accantonate andranno allo Stato e non agli eredi.
Se nel regolamento precisi sono gli orari in cui si svolgono le attività all’interno dello stabilimento, mancano completamente gli orari dei pasti, la cui composizione è invece ben regolata dalla «tariffa del vitto».
La dieta dei ricoverati prevede pane (di tutto frumento), pasta o riso, lardo (o testa o piede di bue), sale, olio nelle stesse quantità dei carcerati; in più viene loro somministrato circa ¼ di vino. Per coloro che lavorano, e per gli invalidi nei giorni festivi, sono concessi 136 grammi (5 once) di carne cruda, o due uova, addebitandoli al guadagno spettante per il servizio prestato nell’opificio. Per quanto riguarda i malati la dieta base è del tutto simile a quella dei carcerati malati.
Per quanto riguarda la competenza delle autorità sul Deposito, è opportuno un cenno sulle delibere più importanti. Il 30 giugno 1817 si conferma l’attribuzione alla Presidenza Interno; l’amministrazione economica tuttavia dipenderà dalla Presidenza delle Finanze. Registri e quietanze dell’ente sono esenti da bollo; i locali, con relativi giardini, non sono sottoposti a contributi prediali. Dal 1830 il Deposito è definitivamente mantenuto dal Tesoro; i conti dei lavoratori sono giudicati dalla Sezione conti del Consiglio di Stato. Dal 1837, infine, la cassa del Deposito è tenuta dall’Esattoria di Borgo San Donnino. I contratti per la somministrazione di materiale vario debbono essere fatti in seguito ad aste pubbliche [22].
La Polizia interna generale è prima affidata al direttore di Polizia, poi dal 28 gennaio 1831 alla Direzione di Giustizia, infine, nel 1846, al Dipartimento Grazia, Giustizia e Buongoverno. I processi per evasione sono di competenza del Tribunale civile e criminale nella cui giurisdizione i mendicanti sono arrestati [23].
La famiglia Marinelli è una famiglia a forte vocazione imprenditoriale nel settore del commercio. Il capostipite della dinastia è Antonio, «negoziante da Pesce», che nel 1765 ha 50 anni, abita a Parma in Borgo Montassù nella casa di sua proprietà, con la moglie Anna, di 46 anni, ed i figli Agostino, di 21 anni, Elisabetta, di 17, Giuseppe, di 15 e Marianna di 10 [24].
La sua attività è comprovata dal rogito del notaio Borelli dell’11 maggio 1764 di un affitto camerale della «Pesca denominata della Botte e Bresciana in Guastalla» [25]. Nel 1770 è tra i fornitori di pesce del Collegio dei Nobili [26].
Anche i figli Agostino e Giuseppe seguono le sue orme tanto che nel 1802 sono approviggionatori di pesce della «R. Cucina di S.A.R. Il Sig.r Infante» don Ferdinando di Borbone [27].
Vincenzo Francesco Luigi Marinelli figlio di Giuseppe (morto a Casalbaroncolo il 13 ottobre 1804) e Antonia Paglia, nasce a Parma il 21 giugno 1782, nella casa di famiglia in Borgo Montassù n. 16. Il 30 ottobre 1811 sposa Maddalena Marianna Clotilde Rugarli, nata a Parma il 18 aprile 1790, figlia di Domenico di Pietro e Luisa Montagna, residente in strada S. Croce n. 155.
Firmano in qualità di testimoni l’atto di matrimonio Filippo Melley, proprietario, somministratore di pane per la Casa Centrale di Detenzione nel 1816, Giacomo Gozzi, Alessandro Speciotti musicista e Domenico Rangoni, negoziante. Firma l’atto in qualità di aggiunto dello Stato Civile Giovan Battista Bodoni.
La coppia non ha figli.
Maddalena Rugarli muore nella casa di borgo Montassù il 16 luglio 1846, mentre Vincenzo Marinelli muore, nella casa di Strada S. Michele n. 174, l’8 settembre 1858. Ne denunciano la scomparsa l’avvocato Pietro Pelleri e il «cugino» Emilio Marinelli [28]. In realtà si tratta del figlio del cugino Francesco Marinelli, figlio di Agostino, fratello del padre Giuseppe [29].
Durante il periodo francese le somministrazioni per la Casa Centrale di Detenzione erano affidate a diversi imprenditori. Negli anni 1812-1813 le derrate alimentari vengono fornite da Angelo Fioroni e Vincenzo Cattanti [30]. Con l’insediamento del governo provvisorio di Magawly le forniture alimentari per l’istituto penale vengono affidate a diversi imprenditori; dal 1814 e fino alla fine del 1816, con contratti prorogati di sei mesi in sei mesi, Pompeo Moraschi somministra «Paste per i Sani, Paste per Ammalati, Fagioli, Riso»; Filippo Melley il pane, Antonio Mori il lardo, l’olio d’oliva e le candele, Margherita Olivieri la carne, Pietro Bichieri il vino [31].
Nel 1817, dopo regolare asta, il contratto per le somministrazioni di tutti i generi necessari all’amministrazione della Casa Centrale di Detenzione e del ripristinato Deposito di Mendicità, comprese anche le suppellettili per l’arredamento, veniva aggiudicato alla ditta Gabriele Ravà, domiciliato in Parma in borgo della Macina n. 13, Luigi Pellegrinelli, Parma Piazza Grande n. 18, Angelo Bertolini, Parma strada S. Michele n. 95 [32]. Allegato al contratto è l’«Indice de’ Carichi per servire all’Aggiudicazione delle Somministrazioni generali di Letti, Vitto, Vestito, Lume e fuoco da farsi al Deposito de’ Mendici, ed alla Casa Centrale di Reclusione», che all’art. 8 determina: «Gli alimenti saranno, se occorre, esaminati all’atto della distribuzione dai direttori, o dai Membri de’ rispettivi Consigli d’amministrazione delle due Case, e riconoscendosi di qualità non buona, o pur mal preparati a segno di poter nuocere alla salute de’ ricoverati e ditenuti, potranno, previa una deliberazione del Consiglio, essere rifiutati: in tal caso il Conduttore sarà obbligato di somministrarne degli altri, e non soddisfacendo a quest’obbligo, dovrà il Direttore provvedere al bisogno della giornata, a carico del Conduttore» [33]. Il contratto doveva valere fino al dicembre del 1826.
Con rogito del notaio Nicola Pellegrini del 26 aprile 1817 viene concessa da parte di Angelo Bertolini la procura a Vincenzo Marinelli «negoziante domiciliato a Parma, presente, che accetta per l’effetto, che Egli assuma in se a nome di detto Bertolini l’esercizio relativo all’Aggiudicazione che è stata fatta dal Governo di questi Ducati alli Sig.ri Gabriele Ravà, Luigi Pellegrinelli, ed Angelo Bertolini suddetto delle somministrazioni di primo Arredo e Diarie al Deposito di Mendicità in Borgo San Donnino ed alla Casa Centrale di Detenzione in Parma…» [34].
Ma la ditta nel primo semestre del 1819 si trova costretta a cessare l’attività [35].
Per gli anni 1820-1821 non si hanno notizie; si può desumere però che le forniture venissero effettuate dal Marinelli che il 30 gennaio 1822 firma, per un novennio, un nuovo contratto. Del contratto si hanno notizie indirette da un documento del 28 agosto 1829 in cui vengono fissati i nuovi prezzi del pane e della pasta, adeguamento fissato ogni anno «in proporzione del costo de’ grani desunto dalle mercuriali della prima quindicina del mese di agosto…» [36].
Dopo la scadenza di questo primo contratto altri ne verranno stipulati, di nove anni in nove anni, con piccole modifiche rispetto al primo. L’ultimo, valido dal 1 gennaio 1852 al 31 dicembre 1860, verrà portato a termine dall’erede del Marinelli [37], che per ora non si è identificato. Nel marzo del 1856 è tra i sottoscrittori convocati «all’acquisto delle Azioni per lo Stabilimento di una Banca negli Stati Parmensi, giusta il progetto pubblicato in Supplemento alla “Gazzetta di Parma” del giorno 29 Agosto 1854 promosso da S.A.R. La Duchessa Reggente…» [38] Questa continuità di attività con lo Stato è ribadita anche dal nome che Marinelli dà alla sua impresa: «Impresa Generale delle Prigioni dello Stato e Deposito di Mendicità».