Di Gianni Rondolino
C’è una sequenza, in un film di Totò del 1954, che riassume in maniera esemplare non soltanto la “presenza” della pasta nel cinema italiano del tempo – e più in generale nel cinema italiano dalle origini ad oggi – ma anche e soprattutto la sua funzione in ambito drammaturgico, come elemento portante di una situazione, controfocale dell’intera composizione drammatica: si tratta di Miseria e nobiltà, una pellicola diretta da Mario Mattoli (1898-1980), sceneggiata dallo stesso Mattoli in collaborazione con Ruggero Maccari (1919-1989), tratta dalla commedia omonima di Eduardo Scarpetta (1853-1925). Una commedia che, fin dal 1888, anno della prima, entrò nel repertorio del teatro popolare italiano, e non solo napoletano, riscuotendo una grande messe di successi un po’ ovunque.
In quella commedia, e più ancora nel film di Mattoli, c’è una “scena madre” in cui i personaggi Felice Sciosciammocca (Totò), Pasquale e i membri della grande famiglia di poveri e affamati, si trovano di fronte a una tavola imbandita su cui troneggia una enorme terrina di spaghetti fumanti. La sequenza è costruita in funzione del significato, addirittura simbolico, che la pasta acquista non soltanto all’interno della commedia, come emblema della fame dei protagonisti, ma anche più in generale, come simbolo di una condizione di vita che il cinema italiano, dagli anni del neorealismo a quelli della commedia all’italiana e anche dopo, ha saputo tratteggiare con grande efficacia spettacolare. E di questo significato metaforico si ha conferma proprio per l’uso che Mattoli fa di un realismo di rappresentazione – pasta vera, sugo di pomodoro, vapore che annebbia i commensali: par quasi di sentirne il profumo e il gusto – all’interno di una messinscena che invece è assolutamente “teatrale”, privilegiando la scena fissa, le scenografie chiuse, la centralità della visione: in una parola, facendo dello schermo una sorta di palcoscenico fotografico. Questo contrasto fra la “verità” della pastasciutta e la “falsità” dell’ambiente è il momento di maggiore intensità comico- grottesca della commedia, ed anche il suo risvolto serio, quasi tragico, come di un gesto collettivo – il buttarsi sul cibo fumante quasi azzuffandosi – che acquista il significato morale di una condizione umana realmente drammatica.
Nello stesso anno, il 1954, un altro attore comico-brillante, Alberto Sordi (1920-2003), dà vita a un personaggio e a una storia che, nelle loro contraddizioni, sottolineano la funzione “necessaria” degli spaghetti come simbolo di un modo d’essere e di vivere italiano. Si tratta di Un americano a Roma, diretto da Steno (Stefano Vanzina, 1915-1988) e sceneggiato, oltreché dal regista e dallo stesso Sordi, anche da Alessandro Continenza (1920-1996), Lucio Fulci (1927-1996), Ettore Scola (1931-2016). Un film che ridicoleggia le manie americane di non pochi giovani italiani del tempo, ed è costruito sul filo-americanismo di Nando Moriconi, incapace di accettare la sua condizione di italiano, sempre pronto a travestirsi e ad atteggiarsi da americano, combinandone di tutti i colori: un personaggio a cui Alberto Sordi dà la sua maschera e il suo stile inconfondibili. E in questo conflitto fra America e Italia (assunte come metafore di due differenti modi di vita), il ruolo degli spaghetti torna ad essere centrale. In una sequenza, fra le più divertenti del film, al buon piatto di pasta preparato dalla mamma, Nando contrappone un immangiabile piatto “americano” da lui stesso preparato, spiegando anzi alla donna la superiorità del mangiare straniero rispetto all’italiano. Con la conseguenza, ovvia, che alla fine il “figliuol prodigo” torna al cibo di casa, addirittura minacciando gli spaghetti con una frase che rimarrà famosa: «Voi m’avete provocato, io vi distruggo».
Siamo, come si vede, nell’ambito della commedia, addirittura della farsa, in un momento in cui il cinema italiano, abbandonato il Neorealismo, si volgeva verso quello che venne definito il “Neorealismo rosa” e poi la “Commedia all’italiana”: un genere di grande successo popolare, che in questi ultimi anni è stato rivalutato dalla critica.
E proprio nell’ambito di questo genere, moltissimi sarebbero i casi da citare, gli episodi da ricordare, le sequenze da descrivere. Perché non v’è dubbio che il cibo in generale, e la pasta in particolare, abbiano costituito una sorta di Leitmotiv di molti film ambientati nell’Italia del dopoguerra e del miracolo economico.
La pasta come semplice ingrediente di una rappresentazione quotidiana della realtà, come elemento della vita di tutti i giorni, ovvero come momento centrale di una scena in cui il mangiare è tutto o, ancora, come simbolo di benessere o, all’opposto (come in Miseria e Nobiltà), di fame ancestrale. Ma sempre – la pasta – come caratteristica alimentare italiana: tanto da farne, ad esempio nei film americani ambientati fra gli italo-americani, una specie di “marchio di fabbrica”, di segno caratteristico, al tempo stesso etnico e sociale, culturale e di costume.
E proprio perché i film da citare sono moltissimi, i due che abbiamo ricordato possono avere anche un valore di testimonianza collettiva, per la loro esemplarità, per la loro espressività. Anche se, risalendo negli anni fino al Neorealismo e proseguendo oltre fino agli anni Sessanta, qualche altro esempio potrebbe essere opportuno.
A cominciare dalla sequenza della trattoria di Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica (1901-1974), in cui la contrapposizione fra ricchi e poveri, in un contesto diverso da quello della commedia di Scarpetta, è riassunta appunto per mezzo del cibo: o da Accattone (1961) di Pier Paolo Pasolini (1922-1975), che riapre la questione della “fame” in una dimensione post-neorealista. Come a dire che gran parte del cinema italiano ha dovuto fare i conti con l’immagine della pasta (soprattutto degli spaghetti) per le sue intrinseche potenzialità simboliche e metaforiche.
A questo punto il discorso potrebbe ampliarsi con incursioni negli anni più recenti, a partire da La grande abbuffata (1973) di Marco Ferreri (1928-1997), grottesca metafora dell’ingordigia, della fine ultima della civiltà dei consumi, del rapporto cibo-sesso come emblema della materialità del vivere, dell’autodistruzione come fuga dalla realtà. E giungere almeno fino a Lunga vita alla signora (1987) di Ermanno Olmi (1931-) o al suo omologo danese Il pranzo di Babette di Gabriel Axel (1918-2014), del medesimo anno, il cui contenuto è il rito stesso della tavola, il mangiare come momento rituale non solo della giornata, ma addirittura della vita.
Ma rischiamo di uscire dal tema, di estendere al cibo e al mangiare un discorso che aveva preso le mosse dalla pasta e ad essa deve tornare. Semmai si può concludere dicendo che, proprio perché la pasta è stata ed è uno degli elementi di forza della cucina italiana, e la cucina è uno dei perni attorno ai quali ruota la vita dell’italiano medio, il nostro cinema non poteva trascurarla, anzi doveva farne – come ha fatto – il simbolo stesso dell’italianità.
Tratto da: A.I. Ganapini – G. Gonizzi, Barilla: cento anni di pubblicità e comunicazione, Milano, Silvana Editoriale, 1994, pp. 216-217.